1. Come si guadagna a sé un’anima? Come si colma la brama di un potere che pretende di conquistare i cuori? È intorno a questo nodo, all’eterno confronto tra libertà e potere, che si svolgono le due tragedie di Giovanni Maddalena I sicofanti e Irene, da poco date alle stampe con il sottotitolo di Dilogia del potere (Marietti, 136 pp., 13 euro). Un confronto la cui drammaticità non è legata – se non nelle forme – a un dato momento storico, ma che è invece di un tempo e di ogni tempo, come mostra l’ambientazione distante delle due opere: l’indefinito futuro prossimo che vede svolgersi la vicenda dei Sicofanti e la Roma imperiale in cui si muovono il vorace Tito e i protocristiani protagonisti di Irene.
2. Il confronto tra le due epoche è anche il confronto tra due volti diversi del potere e ultimamente tra due forme del desiderio distantissime che danno tuttavia luogo al medesimo scenario di morte. Ad agire ne I sicofanti è il volto anonimo del potere, quel volto anonimo che il XX secolo ha visto operare nei totalitarismi dei due lati d’Europa e che si oggettiva in un idolo visibile, promettendo ai suoi adoratori la felicità. Un potere etereo e disincarnato, i cui volti umani figurano a loro volta come pedine di un meccanismo anonimo che si autoalimenta. Il meccanismo si mette in moto quando, donata dall’Onu, nella piazza centrale di una grande città americana compare una statua del noto scultore Jacques Salsa. Una statua brutta e a forma di naso che tuttavia, come dice il presidente nel suo messaggio alla Nazione, non è solo una statua, ma il «simbolo del cammino spirituale» che attende un’umanità definitivamente pacificata.
L’arrivo della statua, le sue promesse di pace tiepida, svelano i cuori stanchi di un mondo incancrenito e ormai incapace di desiderio. E se l’incalzare della scena è marcatamente iperbolico e surreale, la dinamica idolatrica è svolta con una naturalezza tale da permettere a chi legge di riscontrarla facilmente nei propri gesti più insospettati.
Come ogni idolo dalle pretese salvifiche, la statua è inizialmente respinta: ai primi che lo vedono, il naso appare «una statua strana», «brutta», tanto da far rimpiangere i bei tempi andati, in cui «un naso simile sarebbe stato fuorilegge» o almeno «tenuto nel privato». Appena dopo il discorso del presidente, però, l’adesione ingiudicata all’autorità comincia a corrodere le evidenze e annebbiare i giudizi. Insomma, a ben guardare, la statua «non si può dire che sia così brutta», in fondo «è stata fatta da Salsa!», e poi, come racconta Monique a suo marito Ray dopo averla visitata più volte, ha una natura sovrumana: «un’esperienza divina», «un vero e proprio miracolo», grazie al quale «la realtà diventa più reale». Nel volgere di un amen, i cuori deboli dei cittadini si lasciano ovattare dalla pace a buon mercato che l’adesione acritica al naso offre, mentre soltanto Ray sembra accorgersi del tentativo disperato di coprire la realtà con la sua descrizione edulcorata. E se l’esperienza sente una nota discorde, se i sensi e la ragione dicono che si tratta solo di una statua, basta forzare un altro poco la lingua perché si forzi il pensiero, e livellare le differenze fino a non farle esistere: «È lo stesso. È quasi lo stesso. E quindi è identico».
3. In Irene è tutto molto più sanguigno: umana la faccia del potere, umane le passioni e la violenta brama di pienezza che animano l’Imperatore Tito e il suo desiderio folle di dominare il cuore di Plinio, di conquistarne l’anima corrompendone la santità. Nominato a capo dell’Impero dal morente Vespasiano, Tito è accolto e servito da Plinio, che gli riserva un’obbedienza fedele e convinta, imponendola anche all’ardore del giovane nipote Teucro. Ma l’obbedienza di Plinio è inaudita, intollerabile: fedele servitore senza essere servo, il suo cuore e la sua mente hanno un padrone che non è l’Imperatore. Ed è proprio questo che Tito non può tollerare: colmo di livore, consapevole della propria indegnità al cospetto di Plinio, egli decide di distruggere quella libertà che non può conquistare, di seminare il dubbio nel cuore del vecchio soldato e renderlo schiavo della brama come tutti. Per farlo, occorre spezzare i legami più cari, seminare l’ombra del dubbio dove Plinio fonda la propria certezza. Un compito arduo di cui incarica la schiava Aracne, inconsapevole di firmarne a un tempo la perdizione e la salvezza: «Avvelenare la terra. È Plinio che voglio. Il corpo o lo spirito. O tutti e due. […] Fa’ quello che vuoi, ma Teucro il virtuoso e Plinio il saggio si odieranno fino a perdere la ragione. […] Non potranno più obbedire senza smania, comandare senza possedere».
4. I volti del potere che le due tragedie affrontano hanno un’origine opposta. Se nei Sicofanti è infatti la morte del desiderio a dominare, in Irene è una passionalità sfrenata, una sensualità senza oggetto che non riesce a darsi forma e travolge tutto ciò che ha di fronte.
Anonimo e tecnocratico, o umanamente violento e sanguigno, il potere ha tuttavia sempre lo stesso nemico: la verità. E se la verità è inattaccabile per la sua inesorabilità, ciò che il potere può colpire è la capacità dell’uomo di riconoscerla e accoglierla. Per questo i suoi bersagli prediletti sono tutto ciò che sostiene questo riconoscimento, in primis l’amicizia e la fedeltà. Per questo, tanto la polizia del Naso che controlla l’ortodossia, quanto il piano ferale di cui Aracne e Galeno sono esecutori mirano a corrodere la fiducia nelle persone amate, a creare un legame diretto tra un singolo irrelato e il centro del potere, a imporre o esasperare un’etica salvifica per cui tutti giudicano tutti in nome di una presunta maggiore fedeltà. Come dice Tito a Plinio nell’atto conclusivo: «Si può credere quello che si vuole a Roma. Ma si appartiene a quello che si deve».
Così da un lato i personaggi dei Sicofanti, il loro consegnarsi servile all’idolo del Naso, sono l’espressione − stilizzata finché si voglia ma terribilmente realistica − di un mondo talmente privo di desideri particolari da accettarne l’imposizione dall’esterno, pur di averne uno. In Irene, al contrario, tutti i protagonisti perseguono un interesse definito, più o meno santo, più o meno meschino − ed è in questo tentativo struggente di possedere la totalità nel particolare amato che si perdono. Se insomma gli attori di Irene ricordano l’anima semplicetta di Dante, che uscita dalla mano di Dio gli corre incontro e si perde inconsapevole dietro a «ciò che la trastulla», finché «guida o fren non torce suo amore», i cuori assenti dei Sicofanti richiamano piuttosto l’amaro controcanto che ne fa Eliot, di un’anima che non scontrandosi mai davvero con la realtà, cresce «irresoluta ed egoista, deforme, zoppa, / incapace di avanzare o ritrarsi: / temendo la calda realtà, il bene offerto / negando l’importunità del sangue, / ombra delle sue ombre, spettro nella sua tenebra».
Di fronte all’invasione del potere, alla sua pervasività, in entrambe le tragedie emerge come bastione l’irriducibilità di un cuore toccato dal vero. Così per Ray, che rinuncia ai propri principi nel tentativo di salvare la figlia Charlotte; così per la schiava Aracne, che cede al proprio dolore per aver tradito. E se i loro sacrifici sembrano non mutare il corso della storia, il fatto stesso che avvengano pone invece la testimonianza di una possibilità sempre viva per l’uomo: la possibilità di essere sé, di coincidere, fosse anche solo per l’ultimo istante, con quel desiderio che il potere odia, con quella natura inestirpabile che sola può vincerlo.