1. Degli innumerevoli luoghi danteschi che meritano di essere riletti, ce n’è uno, il XVI canto del Purgatorio, la cui centralità è oggettiva. Oggettiva perché si tratta dell’esatto mezzo del poema: la Commedia ha in tutto cento canti, e quello di cui parliamo è il cinquantesimo; attraversa tre luoghi – inferno, purgatorio e paradiso – e ci troviamo qui a metà strada del secondo. Infine, in questo canto incontriamo gli iracondi, che sono gli ultimi spiriti a purificarsi per avere amato il male, cioè se stessi: dalla cornice seguente, Dante ci farà incontrare soltanto anime che hanno amato il bene, cioè l’altro, il fuori da sé.
A questa centralità strutturale, corrisponde una centralità di visione. Continuamente visibili sottotraccia lungo tutto il poema, nelle mosse dei personaggi, nelle reazioni emotive dei viatores, nella stessa struttura dell’oltremondo, in questo luogo sono infatti tematizzati quelli che Dante individua come i fondamenti dell’umano: il desiderio e la libertà.
2. Come detto, siamo esattamente al centro della Commedia. Finora abbiamo attraversato i luoghi dove è punito l’amore rivolto al male: l’orgoglio senza pentimento che apre le porte dell’Inferno; l’amor proprio e quello per i doni ricevuti che fa montare la superbia o – di fronte a chi ne ha di maggiori – l’invidia. In questo canto, anzi già negli ultimi versi del precedente, Dante entra infine nella cornice degli iracondi. La caratterizza l’oscurità, una specie di nebbia; e per capire il perché di questa pena, basta pensare a noi stessi, a quando qualcuno o qualcosa ci fa infuriare e noi veniamo, come siamo soliti dire, accecati dalla rabbia: «Buio d’inferno e di notte privata / d’ogne pianeto, sotto pover cielo, / quant’esser può di nuvol tenebrata, // non fece al viso mio sì grosso velo / come quel fummo ch’ivi ci coperse» (Pur. XVI, 1-5).
Per sfuggire a questo buio e rintracciare il prosieguo dei suoi passi, Dante chiede come sempre fa l’aiuto di un’anima penitente, incrociando così la memoria di Marco Lombardo, uomo di corte noto ai suoi tempi per la sua valorosità e il suo odio dei compromessi. Da uomo nobile qual è, a Marco bastano poche frasi per presentarsi: «“Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco; / del mondo seppi e quel valore amai / al quale ha or ciascun disteso l’arco. // Per montar sù dirittamente vai”. / Così rispuose, e soggiunse: “I’ ti prego / che per me prieghi quando sù sarai”» (Pur. XVI, 46-51).
3. Sono pochi cenni, ma sufficienti. Ferito dalle parole di Marco, cosciente delle proprie passioni repentine e della propria visceralità, Dante dà forma alla domanda che si portava in cuore dall’incontro con Guido Del Duca nella cornice degli invidiosi: «“Lo mondo è ben così tutto diserto / d’ogne virtute, come tu mi sone, / e di malizia gravido e coverto; // ma priego che m’addite la cagione, / sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui; / ché nel cielo uno, e un qua giù la pone”» (Pur. XVI, 58-63).
Se alla parola «cielo» sostituiamo espressioni come «storia personale», «malattia», «fattori biologici», «povertà», possiamo vedere come la domanda di Dante, se cioè l’uomo sia libero di fare il bene, o se il cielo ne indirizzi inesorabilmente le mosse, sia dei nostri tempi così come lo era dei suoi.
Quel che forse ai tempi nostri è meno usuale, è la chiarezza petrosa con cui Marco risponde: ma quale cielo, non ti accorgi che è tutto in mano tua? Avete il libero arbitrio, e «lume» per distinguere il bene e il male. Ma sopra tutto, il «libero voler; che se fatica / ne le prime battaglie col ciel dura, / poi vince tutto, se ben si notrica» (Pur. XVI, 75-78). Se come pensate voi uomini, dice Marco, «tutto / movesse seco di necessitate» (Pur. XVI, 68-69), allora non ci sarebbe libertà, né ci sarebbe merito o colpa. E se di prima impronta il suo richiamo può urtare la nostra sensibilità, perché sembra aprire la strada a un giogo di leggi e doveri che non libera ma soverchia, quel che Marco intende – è che è la novità scandalosa e paradossale del cristianesimo – è proprio l’opposto. Egli ben sa che il peccato originale esiste, e che c’è viva nell’uomo l’esperienza descritta da San Paolo di desiderare il bene e fare il male. E il suo sprezzo non è infatti per il bene che non si fa, ma per il bene che non si desidera; non perché «a quel valore» da lui amato l’uomo non sa corrispondere, ma perché ha rinunciato a sperarlo, vi ha ormai «disteso l’arco».
4. Non la capacità del bene, ma l’amore del bene. Non il desiderio, ma la sua direzione. E per chiodarlo in testa a Dante, Marco gli narra, narrandola così a noi, la dinamica per cui l’anima bambina – che appena creata da Dio non conosce nulla di sé se non la nostalgia confusa di un bene, di un’origine che ha inscritta nella pelle e a cui vuol tornare – desiderando e sbagliando, volendo e temendo, conosce se stessa e l’oggetto del proprio desiderio: «“[…] Esce di mano a lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia, // l’anima semplicetta che sa nulla, / salvo che, mossa da lieto fattore, / volontier torna a ciò che la trastulla. // Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore. // Onde convenne legge per fren porre; / convenne rege aver, che discernesse / de la vera cittade almen la torre”» (Pur. XVI, 85-96).
Non è amare le cose del mondo, l’errore che Marco rimprovera all’uomo: quello è anzi un bene desiderato da Dio stesso, che a ciascuno affida delle preferenze perché attraverso di esse possa imparare ad amare tutto. Quello che Marco rimprovera a Dante e agli uomini è altro, è l’illusione che una sola di queste cose amate possa essergli sufficiente, che sappia colmare il suo infinito bisogno di tutto.
A questo intreccio di desiderio e libertà, al magnifico inno dell’anima semplicetta, darà carne e sangue Beatrice, quando Dante al culmine del Purgatorio finalmente la incontrerà in un incontro durissimo, in cui la donna, con il volto velato che il poeta ancora non è degno di guardare, gli contesta la sua colpa più grave: la disperazione, la mancanza di fedeltà. Non a lei, ma ai sentimenti e ai desideri nobili che lei in vita aveva saputo suscitargli: «“Mai non t’appresentò natura o arte / piacer, quanto le belle membra in ch’io / rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte; // e se ’l sommo piacer sì ti fallio / per la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?”» (Pur. XXXI, 49-54).
È qui che Dante definitivamente s’inchina, che comprende la vanità di tutte le bellezze e di tutti i desideri, quando non siano domanda di amare e servire il tutto. L’amore per Beatrice, la propria abilità letteraria: tutto, nel momento in cui è astratto dal resto, si corrompe, diventa un idolo che schiaccia e domina.
Il canto di Marco Lombardo, però, ci dice anche un’altra cosa. Ci dice che quel «libero voler» è inestinguibile, che ogni istante può essere quello in cui tornare alla domanda: questo mio corpo che non sa vivere, questa mia anima che non sa amare, questo mio desiderio di gloria umana, tu che me li hai dati, usali, fa’ che siano per il mondo. È una domanda che traversa l’intera Commedia e a cui è ancora Beatrice a rispondere, quando svela a Dante il suo compito, legandolo alla grazia ricevuta: a te è stato dato di vedere tutto questo perché lo scriva, perché quell’arte con cui hai così giocato finora serva adesso «in pro del mondo che mal vive» (Pur. XXXI, 103).
Un compito che al Dante pellegrino verrà ridetto due volte nei cieli del Paradiso, e a cui il Dante poeta terrà fede con il sangue per tutta la vita, fermandosi solo davanti alla visione di Dio, al luogo in cui gli si rivelerà finalmente nella sua verità tutto il «picciol bene» amato; il luogo in cui «s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna» (Par. XXXIII, 85-87).