In questi giorni in cui i viaggi si moltiplicano capita di essere “costretti” ad ascoltare le conversazioni dei passeggeri seduti al nostro fianco, in treno o in aereo. E non è difficile indovinare qual è l’argomento più ricorrente: la crisi, con tutti gli aggiornamenti quotidiani, lo spread, i tagli del governo, il Natale senza la tredicesima, l’aumento dell’Iva…
La scorsa settimana sono rimasto colpito dalla reazione di un passeggero su un treno a lunga percorrenza che ha stroncato fin dal principio la solita discussione sul filo delle ultime (e preoccupanti) notizie del giorno: «Per favore, non parliamone perché mi viene l’angoscia». In effetti, le notizie che si susseguono producono quella sensazione angosciosa che fa sentir venire meno il terreno sotto i propri piedi; quel terreno (la stabilità e la prosperità economica) che finora ci ha permesso di vivere senza preoccupazioni, senza bisogno di rispondere (quasi) a nessuno.
Dopo molti decenni il terreno o fondamento comune sembra creparsi. Mentre si cercano soluzioni macroeconomiche, in attesa di sapere se siamo davanti a una crisi passeggera o strutturale, la preoccupazione condivisa da tutti gli spagnoli ha (almeno) un effetto benefico: è riuscita a rompere gli schemi ridotti in cui la mentalità comune ci “invitava” (o ci obbligava?) a vivere.
In effetti, una delle caratteristiche più marcate della società spagnola degli ultimi trent’anni è la censura del problema del significato. Ci sono delle cose di cui non si può (o non si deve) parlare al bar, per strada, al lavoro o nei telegiornali. Questo ci ha portato a pensare che il problema del senso della vita è qualcosa di personale, privato, senza dignità culturale. Chiunque lo mette a tema pubblicamente viene definito “filosofo”, un modo carino per dire che ci si trova di fronte a un “personaggio particolare e fuori dalla realtà”.
Ci sono occasioni in cui, tuttavia, il problema del significato è difficilmente eludibile: davanti alla malattia, alla morte di un familiare o al fallimento di un amore. È qui che il “pensiero unico” della nostra società ha raggiunto il culmine del suo lavoro di ingegneria sociale, sollevando un muro che ci isola dai colpi della realtà: la provocazione della morte, della malattia e dell’amore perduto è stata trasformata in una patologia. L’impatto della realtà, che ci obbliga a porci i grandi interrogativi della vita (che senso ha vivere? Che cos’è l’amore? Che cos’è la morte? Perché c’è il dolore?), è stato neutralizzato: è diventato una malattia da curare. E a occuparsene sarà l’esercito sempre più numeroso di psicologi.
Ebbene, è arrivato il momento di riconoscere (e di farlo a livello di coscienza di popolo) che non esiste la persona (o qualcosa che sia degno di essere definito tale) se non si accetta il problema del significato della propria vita e della realtà che ci circonda. Inoltre, paradossalmente, le più grandi patologie della nostra epoca hanno la loro origine proprio nella censura di questo problema: la depressione, la violenza sulle donne e i suicidi sono una testimonianza (tanto presente quanto messa a tacere) delle conseguenze drammatiche di quell’opera di ingegneria sociale prima descritta.
Il sacerdote e grande educatore Luigi Giussani, anni fa, commentava così l’affermazione di papa Giovanni Paolo II che diceva che il pericolo più grande per l’uomo non è la schiavitù fisica, ma l’eliminazione della possibilità di comportarsi da uomo: «Siamo in un’epoca in cui le catene non sono portate ai piedi, ma alla motilità delle prime origini del nostro io e della nostra vita». Una situazione che porta con sé gravi conseguenze.
Qualcuno potrebbe obiettare che viviamo in una società libera, non in schiavitù. Maria Zambrano risponderebbe però che la nostra è una «pseudo libertà, sostituta della libertà vera; la libertà di vagare per conto proprio fuori dai muri di quella cittadella che è la realtà». Liberi di vagare fuori dalla realtà: un’ottima definizione della nostra società. Con calcio e televisione, se possibile.
La crisi attuale, che non riguarda solo alcuni, ha riportato tra la gente la domanda sul significato della vita, come sottofondo continuo che accompagna gli interrogativi sul futuro dei nostri risparmi, del nostro lavoro e della nostra ricchezza. Oggi è la crisi, anni fa si trattava della guerra, delle catastrofi naturali o delle epidemie: sono modi con cui la testarda realtà mette le persone davanti al dramma della vita che esige un significato. Certamente la stessa mentalità comune cerca in questi giorni di offrirci nuovi succedanei per eludere la questione: scendere in piazza per identificare nel governo, nei banchieri o in Berlino l’origine dei nostri mali. Ma questo non farà altro che rimandare il problema.
Oggi, come duemila anni fa, il cristianesimo mostra tutto il suo potere andando incontro alla domanda di ogni persona. In questi momenti di crisi, in cui le fondamenta tremano, si fa più vicina a noi la domanda del salmista: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal 8). L’affermazione di Cristo «Che cosa serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?» (Mc 8, 36) contiene già una stima infinita per il valore di ogni persona, che si manifestava nel Suo modo di guardare la vita tormentata della Samaritana o il desiderio di essere amato di Zaccheo.
È il momento di recuperare il giudizio rivoluzionario di Gesù di Nazareth: la persona è relazione con l’Infinito e per questo ha un valore unico. Paradossalmente la nostra società potrà tornare a essere più umana nei prossimi anni anche se perderà buona parte del suo potere di acquisto («il mondo intero») oppure si troverà ad affrontare serie necessità. Ma questo non sarà automatico. Potrebbe infatti trasformarsi anche in una società più violenta. Siamo davanti a un crocevia storico per i cristiani nella nostra società: occorre andare incontro alle persone nelle loro necessità concrete, in un momento in cui la realtà ha fatto cadere le difese più ideologiche. Condividere i bisogni per condividere il senso della vita.
Diversamente, come sarebbe possibile costruire se non si parte da una certezza? Sarà difficile che la nostra economia (cioè la creatività che nasce nell’incontrare i bisogni) possa crescere se non si affronta questo tempo come un’opportunità, se non si parte da una relazione positiva con tutto ciò che ci circonda e con tutti quelli che ci stanno attorno. L’angoscia fa retrocedere, mentre solo la fiducia costruisce. L’annuncio che il Mistero che ha fatto tutte le cose è entrato nella storia, fonda questa fiducia ultima nella storia e in tutte le sue circostanze. Ci aspetta un tempo entusiasmante.