Il discorso filosofico di Rodolfo Quadrelli è interessante perché sempre volto a rilevare gli effetti dei grandi sistemi di pensiero su quella che egli chiama la «filosofia implicita delle cose»: sulla concezione, cioè, da cui – spesso meno consapevolmente di quanto amiamo pensare – i nostri gesti e i nostri giudizi traggono origine. Proprio grazie a questa attenzione tra sistema e gesto spesse volte egli sa essere profetico, tracciando analisi e giudizi all’apparenza contingenti, ma che riletti a trent’anni di distanza stupiscono per la loro attualità e intuitività.
Tra i non rari esempi del genere, è bello e utile rispolverare il breve saggio su L’antico e il moderno della filosofia, incluso nel suo secondo capitale libro, Filosofia delle parole e delle cose (Rusconi 1971). Bello e utile perché in questo saggio Quadrelli ci sorprende con una difesa dello spirito tanto radicale quanto inversa di segno rispetto a ciò che ci si attenderebbe da un intellettuale dichiaratamente cattolico. Egli non scaglia infatti anatemi antimaterialisti in stile o tempora, o mores, né richiama a una presunta quanto irrintracciabile epoca aurea in cui lo spirito era tenuto in maggior conto, ma attacca al contrario lo scarso materialismo con cui la modernità tratta il mondo, ultimamente vietandosi di conoscerlo: «Credono i più, sulla scorta della prosa giornalistica, che il processo accelerato verso la negazione di Dio, palese soprattutto nella filosofia implicita delle cose, derivi dal progressivo avvento del materialismo. Sappiano invece che la filosofia moderna è giunta alla negazione di Dio attraverso la negazione della materia (della “materia prima”) e che lo “spiritualismo” piagnone o follemente metafisico dei discepoli di Gentile non ci consola affatto della perdita del mondo» (Filosofia delle parole e delle cose, p. 27).
La negazione di Dio, sostiene Quadrelli, non deriva da troppo materialismo ma da un materialismo troppo debole, incapace di vedere nella materia un peso e una fisicità reali e di riconoscerne quindi la datità. La conseguenza amara, di cui in quest’epoca di confusione sono diffusamente visibili i segni, è proprio la «perdita del mondo», la sua riduzione a immagine, a simulacro opinabile e ultimamente inconoscibile di cui «da un lato si nega la forma che deve essere già stata creata da Qualcuno, e dall’altro si dice con Galileo e con Vico che l’uomo può ottenere certezze parziali ma equivalenti a quelle di Dio, nei campi che gli sono consentiti, quali a vicenda la matematica e la storia» (Filosofia delle parole e delle cose, p. 22).
E se le certezze ottenibili sono sempre parziali, se ogni raggiungimento è soggetto a un superamento fondato non sull’esperienza storica e carnale dell’oggetto ma su un mero mutamento di criteri mutuati al di fuori del rapporto tra il soggetto che conosce e l’oggetto che chiede di essere conosciuto, allora la scelta davanti alle cose non è più tra verità ed errore, ma tra essere alla moda o non esserlo: «Non si sceglie più tra verità ed errore da quando esiste l’antico e il moderno. Si è moderni» (Filosofia delle parole e delle cose, p. 20).
Si tratta del vizio antico dei sapienti, i quali impongono agli stolti il proprio schema sulla realtà professando le cose come dovrebbero essere, anziché viverle e pregarle perché svelino ciò che sono. E che per farlo abbisognano anzitutto di negare l’inesorabilità dell’esistente, usando verità parziali e analitiche per eroderne la forma sintetica e cogente con cui noi lo incontriamo e conosciamo: «Era già venuto Copernico a dimostrare che il sole non sorge e non tramonta; nulla di strano che un Berkeley concluda che il mondo “esterno” non esiste: tutte queste filosofie sono propriamente una critica dell’ignorante, che dice il sole sorgere e tramontare e crede che il mondo esterno esista. Esse non si rivolgono direttamente (e tantomeno con platonica “meraviglia”) al mondo, poiché vogliono negare il mondo» (Filosofia delle parole e delle cose, p. 22).
Come sempre, il gioco corre intorno al nesso tra le parole e le cose. Un nesso che è un rapporto vivo e che chiede di accettare che il nome delle cose vada pregato sempre, perché non è mai interamente conosciuto. Senza questo rapporto, i nomi divengono idoli e noi trattiamo la vita attraverso di essi, fingendo con noi stessi che tutto ciò che viviamo, tutto ciò che amiamo, tutto ciò che sbagliamo sia non redimibile – come ogni cuore vissuto nella storia umana ha segretamente intuito e desiderato – ma reversibile. Ma un bacio dato è un bacio, non si può vivere come non avendolo dato, se non al prezzo di annullare la storia e il suo portato di vita. Ed è a questo idolo mortuario, all’illusione che il male e il bene non debbano essere salvati ma siano invece nell’eterna possibilità di essere resi come mai esistiti, che il nostro tempo debole è devoto.
Sarebbe niente, se il prezzo non fosse appunto la perdita del mondo. Se non fosse che, come sapeva il salmista, «la verità germoglierà dalla terra» e che perciò di questa terra, di questo tempo, abbiamo bisogno, pesanti e ingombri come sono, strazianti e meravigliosi come sono.