Lizzie era ancora bellissima. I suoi magnifici capelli rossi brillavano nella notte alla luce di un falò e incorniciavano quel volto angelico che aveva fatto ammattire poeti e pittori della Londra della decade centrale dell’Ottocento. I suoi capelli di rame adesso erano cresciuti a dismisura arrivando a velare il suo corpo di modella, alto e snello. Peccato soltanto che ormai Lizzie fosse un freddo cadavere e che fossero già trascorsi sette anni dalla sua tragica morte (“accidentale” per il referto medico, dovuta a una micidiale dose di laudano nella vulgata di tutti) e che nella sua bara nel cimitero di Highgate rovistassero uomini intenti a ritrovare un prezioso manoscritto…
Sembrerebbe la scena di un classico film gotico. Magari con la debita cornice di nebbie, corvi e lapidi corrose dalle intemperie. E invece fu la realtà dell’ultimo atto della vita, tragica e irrimediabile, di Elizabeth Siddal (1829-1862), la “regina di cuori” dei Preraffaelliti che posò per opere indimenticabili come l’Ofelia di John Everett Millais.
Una messe di nuovi dettagli su di lei si apprendono adesso dalla biografia scritta da Lucinda Hawksley, giornalista e pronipote di Dickinson, e tradotta in Italia per i tipi di Odoya con un invito alla lettura di Barbara Tomasino, che così inquadra “la prima supermodella della storia”: “la più affascinante e poetica di tutte le muse, con la sua aurea chioma che la circonda come una sacra “mandorla” – l’alone di luce delle icone bizantine – rendendola un simulacro immortale di Eros e Thanatos, Grazia e Martirio”.
La storia di Elizabeth inizia come una fiaba, a Londra nel 1849. Lei è ventenne cenerentola povera (ma non poverissima), seconda di otto fratelli, che lavora per 24 sterline all’anno nel retrobottega di un negozio di cappelli, al numero 3 di Cranbourne Street, di proprietà di Mrs Tozer. Segni particolari: un’inconfondibile chioma fulva, cui la tradizione popolare associava stregonerie e tradimenti. Così la sua biografa: “La superstizione voleva infatti che i capelli rossi fossero latori di sfortuna, associati com’erano alle streghe, alla magia nera e alla fulva chioma biblica di Giuda Iscariota”.
Il giovane pittore Walter Howell Deverell (1827-1854), astro fiammante e sventurato, entrò per caso nel negozio di Mrs Tozer rimanendo folgorato da Lizzie. È esattamente la modella che stava cercando per dipingere una scena de La dodicesima notte di Shakespeare. Il suo entusiasmo è un fiume in piena. Chiama subito a raccolta quella brigata di pittori incendiari che passeranno alla storia come i Preraffaelliti per mostrare la sua nuova dea. Ecco come Deverell raccontava la sua Damasco (nel resoconto fornitoci da W.H. Hunt): «Voi compagni non potete immaginare quale stupenda creatura ho trovato. Per Giove! Sembra una regina, magnificamente alta, con una bella figura, un collo maestoso e un viso tra i più delicati e definiti; la superficie dalle tempie alle guance è esattamente uguale a quella di una scultura di una dea di Fidia…”.
L’ammirazione di Deverell si trasformò subito in amore, ma Lizzie preferì lasciarsi conquistare da Dante Gabriel Rossetti: per lui diventò l’incarnazione di Ginevra e di Beatrice.
Dante si perse per quella bocca che bruciava rosso fuoco su un volto celtico e iniziò a dedicarle poesie ardenti: “O nata con me in un luogo dimenticato dagli uomini / E non incontrata negli anni, non vista, non sentita, / Come ti riconosco, nata insieme con l’anima mia…”.
Tra Dante e Lizzie si accese una storia tormentosissima e labirintica così compendiata dalla Hawksley: “Non solo Lizzie era ugualmente tesa e incline al nervosismo come Rossetti, ma entrambi erano testardi e disobbedienti, votati alla depressione e altalenanti dall’eccitazione allo sconforto; erano tendenti alla dipendenza e condividevano un bisogno geloso e distruttivo di essere la figura più importante nella loro – o, in verità, in qualsiasi – relazione. Quando erano innamorati e felici, lo erano smisuratamente, senza bisogno di nessun altro e assolutamente appagati nello stare stretti l’uno accanto all’altra nella camera di Rossetti, per giorni e giorni. Quando però uno di loro – o entrambi – era infelice, malato, depresso o geloso, rendeva la vita dell’altro un inferno”.
Naturalmente nella loro storia ci furono momenti di idillio. Intensissimi. Marisa Volpi (splendida autrice da riscoprire) nella sua ormai introvabile trilogia di racconti Fuoco inglese (Medusa, Milano 2001) ha provato a rievocarli: “I due vivono nei primi anni una vita bohémienne. La sera escono a mangiare a credito da qualche parte, soli o con gli amici. Il giorno è interamente dedicato all’arte, alla lettura, alla poesia: a capofitto. Egli la chiama Divina Colomba e disegna nelle lettere e nei bigliettini la testa di una colomba al posto del suo nome. Nei pub o nei caffè londinesi, le stringe le mani con adorante passione. Escono lungo il fiume, allacciati. Gli alberi delle notti lunari sono per lei palcoscenici magnifici, mentre egli si ferma e la bacia sotto cieli nuvolosi…”.
Dante non tollerava che la bella Liz posasse per altri (lei era diventata una star dopo aver posato in una vasca d’acqua ghiacciata per essere Ofelia e a lungo conserverà le stimmate di quella prova), ma rimandava sempre la data delle nozze, probabilmente per la differenza di ceto sociale. Elizabeth, da parte sua, era sì perduta per Dante, che le aveva anche insegnato a dipingere (con eccellenti risultati secondo il critico John Ruskin), ma era anche stremata dall’instabilità della condizione di eterna fidanzata e dalle infedeltà di lui. Il suo sistema nervoso si crepò e iniziò a cercare conforto nel laudano, un preparato a base di oppio e alcol, di cui nella storia erano stati dipendenti personaggi come Walter Scott e Samuel Coleridge.
I medici si affannarono invano per capire quale drago avesse iniziato a scavare la bella Lizzie. Qualcuno parlò di tubercolosi, altri di disordini alimentari, altri optarono per una non meglio precisata nevrosi, altri ancora parlarono addirittura di “deviazione della spina dorsale”. Quando la situazione psicofisica di Elizabeth sembrò precipitare, Dante si decise a sposarla. Erano passati nove anni dal loro primo incontro.
I due eterni fidanzati finalmente si sposarono nella chiesa di St. Clement ad Hastings il 23 maggio 1860. Quel giorno non era presente neppure un famigliare. La luna di miele parigina fu un balsamo per quelle due anime scorticate. Ma a meno di un anno dalle nozze, il 2 maggio del 1861, Lizzie partorì una bambina morta. Per la sua psiche esausta fu il tracollo.
Gli amici testimoniarono in seguito di averla vista dondolare una culla vuota come per fuggire la realtà. Il 10 febbraio del 1862, la trentaduenne Lizzie si suicidò con un’intera bottiglia di laudano. Chiesero un ricordo al poeta Swinburne che scrisse: “Per uno che, quanto meno, la conosceva meglio di altri amici di suo marito, la memoria del suo meraviglioso fascino mentale e della sua persona – la sua grazia inimitabile, la bellezza, il coraggio, la forza, l’arguzia, l’umorismo, l’eroismo e la dolcezza – è troppo cara e sacra per essere profanata da un qualsiasi tentativo di espressione”.
Il colpo per Dante Gabriel fu durissimo. Prima che la bara di Lizzie venisse chiusa lasciò tra i capelli dell’amata un manoscritto di poesie. Non ne aveva fatto copie. Quei versi erano stati solo per lei in vita, e lo sarebbero rimasti anche dopo la morte (Lizzie li custodiva tra i diari, l’Endimione di Keats e una spilla d’ametista della madre). Il destino per Dante si fece sempre più torvo. Iniziò a ciondolare tra dissolutezze, droghe, insonnie, modelle. Arrivò anche la crisi creativa e con essa la proposta “indecente” di Charles Augustus Howell, il suo agente letterario. Disigillare la bara di Lizzie per recuperare il manoscritto con le poesie d’amore. L’atlante segreto del loro amore. Il loro patto inviolabile. Il 16 agosto 1869 Dante scrisse a Howell: “Mi sento propenso, se la cosa fosse effettuabile, con il tuo amichevole aiuto, di andare fino in fondo col recupero delle mie poesie, se possibile, come mi hai proposto qualche tempo fa. Auspicherei solo un’assoluta segretezza da parte di tutti, poiché la faccenda non deve davvero trapelare…”.
E una notte il recupero avvenne. Dante non volle partecipare, Howell sì, riferendo poi che Lizzie non era ridotta a uno scheletro, ma che era “rimasta bellissima come sempre era stata in vita, e i suoi capelli, che avevano continuato a crescere dopo la morte, ora riempivano la bara ed erano di un color rame brillante, scintillando ipnoticamente alla luce del fuoco…”. Il recupero del manoscritto non avrebbe salvato Dante dai suoi fantasmi. Anzi ne avrebbe aggiunto uno: quello di una ragazza vestita di bianco con i capelli sempre rossi. Dicono che ancora oggi sia il più assiduo degli spettri del cimitero londinese di Highgate.