Erano 450mila il 26 dicembre. Saranno più di 500mila il giorno della chiusura, il prossimo 27 gennaio. Si poteva prevedere che la mostra di Picasso a Milano sarebbe stata un successo, ma forse le dimensioni di questo successo meritano qualche riflessione: del resto era la terza volta che Palazzo Reale apriva le porte al maestro spagnolo. E se la prima mostra, resa storica dalla presenza di Guernica, risale al lontano 1953, la seconda invece è molto vicina: anno 2001. Si poteva quindi temere anche un effetto di già visto.
Così non è stato. Una media di 4500 persone al giorno hanno staccato il biglietto d’ingresso (9 euro il prezzo del biglietto intero), migliaia sono state le visite guidate. Basta dire che Picasso è un po’ come un feticcio, e basta evocare il suo nome per attirare grandi folle? Non è risposta sufficiente. Ci sono altri elementi che invece vanno presi in considerazione. Alcuni molto concreti: la mostra presenta una scelta di opere di grande e a volte di grandissimo livello che copre tutto il lungo arco della storia artistica di Picasso. Il percorso cronologico ha evitato artificiosità tipo suddivisioni tematiche a cui tante mostre ci hanno abituato, e lo stesso titolo della mostra (semplicemente “Picasso”) ci ha evitato quelle formule fantasiose e furbe per accalappiare pubblico. Il resto ce lo ha messo la sede, Palazzo Reale, finalmente restituita a tutta la sua potenzialità, con le sue sale amplissime allestite in modo molto semplice che però rendono l’impressione di essere al cospetto di una “grande” mostra. Avendo visto più volte gli stessi quadri nella loro sede naturale a Parigi (l’Hotel Salé, ora in restauro), mi resta l’impressione che a Milano siano disposti con più respiro. Si possono aggiungere anche altri fattori che hanno agevolato il successo: l’orario lungo (apertura alle 8,30 in alcuni giorni; chiusura alle 23 in altri), l’apertura sette giorni su sette.
Ma tutto questo non basta a spiegare il successo (che per avere un metro di paragone eguaglia la mostra per il centenario di Caravaggio a Roma nel 2010). Probabilmente la risposta più giusta è da cercare in un meccanismo scattato nel subconscio collettivo: in un momento di depressione diffusa, in parte indotta dall’andamento della crisi, dall’altra inculcata da troppi predicatori di tristezza, le persone in Picasso hanno trovato una sponda imprevista (e salutare) di positività e di vitalità. D’altra parte Picasso è colui che spavaldamente proclamava di non conoscere problemi ma solo soluzioni, di trovare senza bisogno di cercare, di costruire anche nel momento in cui demoliva forme e convenzioni. Insomma, nell’aria c’era un grande desiderio inespresso di incontrare uno come Picasso. Uno che restituisse energia e convinzioni.
A volte questi meccanismi collettivi aiutano anche a capire con più chiarezza chi li ha suscitati. In questo caso cioè a capire meglio la grandezza di Picasso. Nel piccolo e affascinante libretto che Gertrude Stein (la sua prima grande collezionista già ad inizio 900) ha scritto per ricordare la sua amicizia con Picasso, c’è una pagina che trovo rivelatrice. È quella in cui la Stein, volendo spiegare la stagione cubista dell’artista, rivela un particolare che probabilmente era emerso in qualche conversazione avuta con lui. Dice che per Picasso il cubismo equivaleva ad adottare lo sguardo proprio di un bambino quando è in braccio a sua madre. Scrive la Stein: «Un bambino vede la faccia di sua madre, e la vede in modo completamente diverso da come la vedono gli altri. Non sto parlando dell’anima della madre, ma dei tratti, dell’intera faccia; il bambino la vede molto da vicino, è un faccia grande per gli occhi di un piccino, il bambino per un po’ vede solo una parte della faccia della madre, conosce un tratto e non l’altro: alla sua maniera, Picasso conosce le facce come un bambino, conosce le facce, la testa, il corpo… Ognuno è abituato a completare l’insieme con quello che sa: ma Picasso quando vedeva un occhio, l’altro non esisteva più, per lui esisteva solo quello che vedeva…».
Non è un caso che la curatrice della mostra, Anne Baldassarri (direttrice nel museo parigino), nel preparare chi avrebbe fatto da guida, abbia citato proprio questa pagina per spiegare fuori dai soliti stereotipi quella fase cruciale della storia di Picasso. Un genio curioso di tutto come lo è un bambino. Un genio vorace di realtà, che aveva la baldanza del semplificatore nell’era tristissima delle complessità. Forse per questo, consciamente o no, c’era così tanta voglia di Picasso in questi mesi a Milano.