Le “larghe intese” che stanno caratterizzando il sistema politico italiano ormai dall’autunno del 2011, prima con il governo Monti e adesso con il governo Letta, hanno riportato agli onori della cronaca, seppur in tono minore e non senza qualche equivoco, il quarantennale del cosiddetto “compromesso storico”: ovvero la proposta lanciata dal segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, tra il settembre e l’ottobre del 1973, in cui veniva auspicato un nuovo “incontro” fra le forze popolari di ispirazione socialcomunista e quelle di ispirazione cattolico-democratica, con l’obiettivo di superare la “crisi” politica della democrazia italiana e la “crisi” economica del Paese.
Questa proposta, il cui carico simbolico è stato oltremodo enfatizzato da una vastissima pubblicistica di partito, ha generato, nel corso degli anni, un duplice equivoco. Da un lato, la formula berlingueriana del “compromesso storico” è stata utilizzata, erroneamente, per descrivere anche la stagione successiva della “solidarietà nazionale”, ovvero quel breve periodo storico, tra il luglio 1976 e il marzo 1978, caratterizzato dal coinvolgimento del Pci all’interno della maggioranza di governo. Dall’altro lato, come conseguenza di questo equivoco, il “compromesso storico” ha finito per essere interpretato come una sorta di teorizzazione politica che auspicava, in un momento di particolare necessità per il Paese, la collaborazione governativa tra i due maggiori partiti del sistema politico.
In estrema sintesi, il “compromesso storico” e il dialogo tra Berlinguer e Moro è stato letto, agli inizi degli anni Novanta, come il presupposto culturale della nascita dei governi de “l’Ulivo”, mentre più recentemente è stato reinterpretato come il preludio simbolico-ideale dell’odierna stagione dei governi sostenuti da Pd e Pdl. Una lettura, quest’ultima, che non tiene adeguatamente conto, però, del particolarissimo contesto storico in cui si sviluppò la proposta berlingueriana e, di conseguenza, del diversissimo sistema politico in cui si sono trovati a governare sia Monti che Letta.
Il “compromesso storico” elaborato da Berlinguer auspicava, infatti, la nascita di un nuovo patto sociale tra le masse socialcomuniste e quelle cattoliche che, da un lato, riproponeva il ritorno alla grande alleanza dell’immediato dopoguerra – quando i governi di unità nazionale riproducevano, grossomodo, i rapporti di forza all’interno del Comitato di liberazione nazionale – e, dall’altro lato, rappresentava una forma di risposta al degrado morale del paese ormai percorso da un “individualismo” sfrenato e da un consumismo “dissennato”. La proposta di Berlinguer si configurava, dunque, come una sorta di “terza via” al socialismo che, pur riproponendo, come in passato, una fuoriuscita dal sistema capitalistico attraverso un processo rivoluzionario, si sarebbe dovuto svolgere soltanto con le forme pacifiche del metodo democratico.
Il “compromesso storico”, pertanto, non rappresentava una soluzione alla crisi del sistema dei partiti – non era, cioè, un nuovo “sbocco politico” all’ingessata democrazia italiana a cui mancava la fisiologica dinamica dell’alternanza – ma si presentava come l’ennesimo tentativo di costruire una “società nuova”, questa volta frutto dall’incontro tra il mondo comunista e quello cattolico, che si innestava sia sulla linea teorica del gramscismo che su quella tattica e strategica del togliattismo.
In altre parole, la proposta berlingueriana era l’ultimo prodotto, seppur riattualizzato, della tradizione politica del comunismo italiano e che, proprio per questo, non aveva nel suo orizzonte politico-simbolico alcun significato istituzionale che potesse contribuire a modificare la democrazia dei partiti arrivando, per esempio, a proporre una “grande coalizione” o un “governissimo”.
A questa originaria proposta di Berlinguer si aggiunse e, anzi, si sovrappose, tra il 1975 e il 1976, l’elaborazione politica di uno dei più importanti leader della Dc, Aldo Moro, il quale iniziò a parlare, sempre più insistentemente, di “una terza fase per la Democrazia cristiana” che avrebbe dovuto aprire nuovi scenari per l’intero sistema politico italiano. L’affermazione dei movimenti giovanili e delle donne, il referendum sul divorzio del 1974, la polarizzazione del voto in pochi partiti – la Dc, il Pci e il Psi nel 1976 raccolsero più dell’80% dei consensi – e un generale spostamento a sinistra dell’elettorato italiano, avevano messo in luce, inequivocabilmente, un deficit di rappresentanza della Dc sulla società italiana, oltre che una fase di stallo di tutto il sistema dei partiti.
È in questo controverso quadro politico – caratterizzato dall’impossibilità di nuovi equilibri politici – che nasce il governo “solidarietà nazionale”, o della “non sfiducia”, il quale traeva una importante legittimazione politica dall’emergenza terroristica che stava insanguinando il Paese.
Nel 1978, alla morte di Moro, il giurista e politico democristiano Roberto Ruffilli – che sarebbe stato ucciso anch’esso dalle Brigate Rosse dieci anni più tardi, nel 1988 – sostenne che la “terza fase” prospettata da Moro non era altro che l’esigenza di una “stabilizzazione della democrazia pluralistica” che avrebbe dovuto portare “ad una compiuta democrazia dell’alternanza”. Nulla a che vedere, quindi, con la “società nuova” auspicata da Berlinguer, né tantomeno con l’idea di un “compromesso storico”, la cui eccezionalità “storica” era tale solo in virtù del contesto internazionale caratterizzato dall’ordine di Yalta, ovvero il duopolio Usa-Urss.
In definitiva, l’unico vero punto di contatto tra l’elaborazione di Moro e quella di Berlinguer non fu tanto l’alleanza politica tra Dc e Pci – che il primo considerava transitoria ed utile per il mutamento del sistema politico, mentre il secondo la riteneva “organica” per una riforma complessiva della società – ma fu la comune sensibilità verso il “degrado morale” in cui versava il Paese. Una comune sensibilità che metteva in evidenza, non solo un modo simile di percepire il Paese ma anche e, soprattutto, la stessa difficoltà a rappresentare la società italiana. Una società che si stava progressivamente secolarizzando e laicizzando da ogni forma di religiosità, foss’anche quella politica, e che nel decennio successivo si sarebbe sempre meno rispecchiata nelle due più importanti famiglie politiche della Repubblica.