CAMUS/ Come si fa a vivere senza la grazia?

- Massimo Borghesi

Il 7 novembre 1913 nasceva Albert Camus. La sua opera, un "sì alla vita nella consapevolezza del limite definitivo rappresentato dalla morte", avrebbe segnato un'epoca. MASSIMO BORGHESI

albertcamusR439 Albert Camus (Immagine d'archivio)

Il 14 gennaio 1960 l’automobile guidata da Michel Gallimard si schiantava contro un albero lungo la Nazionale 5, nel tratto Sens-Parigi. Nella vettura, una potente Vacel Vega sportiva, viaggiava anche Albert Camus il quale moriva sul colpo. Si concludeva così, tragicamente, l’esistenza di uno scrittore la cui opera filosofico-letteraria aveva permeato profondamente e fatto discutere a lungo la generazione del secondo dopoguerra. Poco tempo prima di morire, nel dicembre del ’57, aveva ricevuto a Stoccolma il Premio Nobel per la letteratura.

Camus era nato il 7 novembre 1913 a Mondovì in Algeria da una famiglia di modeste condizioni. Il padre, Lucien, morirà nel 1914 nel corso della Grande Guerra; il piccolo Albert rimase con la madre e con la nonna. L’infanzia trascorre tra i quartieri popolari di Algeri, dove la famiglia allora abitava, in un clima di povertà ma anche di spensieratezza e di gioco. Più tardi, ricordando quel periodo, dirà che la povertà «non è mai stata una disgrazia per me: la luce vi spandeva le sue ricchezze» e poi «mare e sole in Africa non costano niente». La lezione che ne aveva tratto era quella di una vita posta a metà strada tra la miseria e il sole: «La miseria mi impedì di credere che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto». 

In questa duplicità, nell’oscillare tra i due poli dell’esistenza, è già prefigurato il motivo che sarà al centro di tutta l’opera di Camus: il sì alla vita nella consapevolezza del limite definitivo rappresentato dalla morte. Su questo connubio, teso e drammatico, di felicità e di morte, peseranno certamente le letture giovanili: il Gide di Les Nourritures terrestres, Jean Grenier di Les Iles, così vicino a Gide, e poi Malraux e Nietzsche con la loro stoica accettazione di un’esistenza in sé priva di senso. Questi autori non solo lo inizieranno alla letteratura ma lo influenzeranno anche in modo decisivo. È mediante quelle letture che la «religione della felicità» – la quale guarda al mare, al sole e, miticamente, all’Elleade, – si afferma come orizzonte ultimo. La nostalgia della Grecia, confusa con l’ideale «mediterraneo» ove la natura benigna conferisce agli uomini l’idea di limite e di misura, è ben presente nella riflessione di Camus. Per questo pagano che ama la terra come la patria definitiva, l’amore alla vita non viene meno neppure dopo l’attacco di tubercolosi che lo colpisce per la prima volta nel dicembre 1930 e lo porrà, drammaticamente, di fronte alla possibilità della sua morte. La malattia, che lo accompagnerà sempre, acuisce anzi in lui la percezione della bellezza, fugace ma splendida, che illumina l’esistere in attimi che paiono eterni.

«Ho desiderato di essere felice, come se non avessi altro da fare»: «Tutto il mio regno è di questo mondo», così scriverà nel 1932. A quegli anni appartiene la stesura de Il rovescio e il dritto e Nozze pubblicati, rispettivamente, nel 1937 e 1939. 

Nel secondo scritto, un insieme di saggi pervasi da un’ebrezza solare e panica, la felicità risiede per intero in «un giorno di nozze con il mondo». Nello stupendo paesaggio intorno al mare a Tipasa l’incontro tra uomo e natura pare assoluto: «A Tipasa, io vedo corrisponde a io credo», qui «oltre al sole, ai baci e ai profumi selvatici tutto ci sembra futile». È la gioia del sole e del mare, degli odori, del sapore di sale sui corpi cui la natura pare offrirsi nella sua pienezza. La gioventù di Algeri, «questo popolo, gettato tutto nel presente, vive senza miti, senza consolazione. Ha messo tutti i suoi beni su questa terra e rimane così senza difesa contro la morte». L’accettazione dell’attimo presente come della «sola volontà che ci sia data in sovrappiù» consegue al rifiuto di una «felicità sovrumana»: «Non vi è eternità fuori del giro dei giorni». Al peccato contro Dio il giovane Camus sostituisce, nietzschianamente, quello contro la vita: esso è dato dallo «sperare un’altra vita», dal sottrarsi all’implacabile grandezza di questa.

La «curvatura» del destino cui egli piega l’esistenza non è per altro l’esito semplice e lineare di una posizione meramente sensualistica. La giustificazione «estetica» del mondo presuppone, sulla scia de La nascita della tragedia di Nietzsche, il contrasto tra spirito apollineo e dionisiaco, tra l’assurdità di un mondo senza significato, votato alla morte, e il desiderio inestirpabile di amore e felicità propri del cuore. Il plastico dir di sì alla vita non è allora a tutto tondo ma presuppone un’ascesi, l’accoglimento dell’essere anche nelle sue ombre. 

C’è sicuramente in questo voler rinchiudersi nel finito, e quindi nel rifiuto camusiano di Dio, non solo un ostacolo di tipo sensistico-razionalistico, ma anche una ribellione metafisica, una rivolta contro la creazione. Max-Pol Fouchet ha raccontato che un giorno, passeggiando lui e Camus sul lungomare (avevano 15-16 anni) si imbatterono in un assembramento attorno ad un ragazzo arabo ucciso da un autobus. Camus indicando il cielo avrebbe detto: «Vedi, lui tace». Molti anni dopo scriverà nei diari: «Credere in Dio è accettare la morte. Quando avrai accettato la morte, il problema di Dio sarà risolto − e non viceversa». Il tema del dolore unitamente a quello della felicità costituiscono pertanto «il rovescio e il diritto» della vita, il suo no e il suo sì, gli opposti che non devono escludersi ma implicarsi in un cerchio immanente e chiuso. In questa adesione globale all’essere ogni giudizio di valore è precluso, non ha senso in un mondo privo di senso. L’assurdo “fonda” così l’innocenza del mondo − vera condizione per la rivolta metafisica −, il suo essere «al di là del bene e del male». È su questo presupposto che si costituisce la prima trilogia di Camus, quella dell'”assurdo”, costituita da un romanzo, Lo straniero, un’opera teatrale, Caligola, e un saggio filosofico, Il mito di Sisifo, apparsi quasi contemporaneamente nel 1942.

Il tema di fondo, nonostante le apparenti analogie che allora facevano identificare il senso della sua opera con quello di Sartre, era la possibilità della felicità in un mondo senza Dio, privo di significato. Meursault, il protagonista de Lo straniero, vive, fa l’amore, uccide persino, in una totale estraneazione da sé e da gli altri. Solo di fronte al cappellano del carcere, prima dell’esecuzione capitale, si ribella e prende possesso di sé riconoscendo, nel rifiuto di Dio, la felicità che è propria della vita perché assurda. «Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo alla tenera indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora».

Ne Il mito di Sisifo ritorna l’equivalenza tra l’assurdo e una felicità possibile. Sisifo, il mitico titano condannato dagli dei a rotolare all’infinito una pietra, è l’eroe «assurdo». Egli «insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile […]. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».

Il ciclo dell'”assurdo” di per sé, nonostante le edizioni delle opere, è pensato prima della guerra. Ad esso segue la trilogia della «rivolta» con al centro La Peste (1947), che riflette profondamente il dramma del conflitto bellico. Il ciclo di Prometeo («La rivolta») continua idealmente quello di Sisifo − la rivolta è anzitutto ribellione metafisica contro la creazione assurda − e tuttavia, dopo l’immane esperienza di male contenuta nella guerra, ciò che entra in crisi è il fondamento di quella rivolta: l’idea dell’uomo innocente. «Col tempo − afferma Tarrou ne La Peste − mi sono semplicemente accorto che anche i migliori non potevano, oggi, fare a meno di uccidere o di lasciar uccidere: era nella logica in cui vivevano, e noi non possiamo fare un gesto in questo mondo senza correre il rischio di far morire. Sì, ho continuato ad aver vergogna, ed ho capito questo, che tutti eravamo nella peste; ed ho perduto la pace». La confessione di Tarrou lo porta da un desiderio di purificazione, alla domanda cruciale «se si può essere un santo senza Dio». Questa domanda è ora al centro dell’intera produzione di Camus. «Che cosa medito di più grande di me − scrive nel ’42 −, e sento senza poterlo definire? Una specie di difficile marcia verso una santità della negazione, un eroismo senza Dio, l’uomo puro insomma. Tutte le virtù umane, compresa la solitudine di fronte a Dio. In che cosa consiste la superiorità di esempio (la sola) del cristianesimo? In Cristo e nei suoi santi, nella ricerca di uno stile di vita. La mia opera avrà tante forme quante sono le tappe sulla strada di una perfezione senza ricompensa. Lo Straniero è il punto zero. Idem il Mito. La Peste è un progresso… Il punto d’arrivo sarà il santo».

Il perseguimento di questa figura ideale si rivela però meta difficile ed ardua e questo proprio in relazione all’approfondirsi del tema del male, del declino dell’idea di innocenza, già operante ne La Peste. La nuova prospettiva raggiunta se non scagiona l’«arbitrio» della Provvidenza divina non giustifica però nemmeno l’uomo, diversamente da quanto accadeva in precedenza in seno all’«assurdo». Riguardo a Dio, dichiarerà in un’intervista del ’48, «l’ostacolo fondamentale mi pare che sia il problema del male. Ma è un ostacolo reale anche per l’umanesimo tradizionale. C’è la morte che significa l’arbitrio divino, ma c’è anche l’assassinio che rappresenta l’arbitrio umano. Siamo stretti tra due arbitrii». Nel conflitto tra queste due posizioni sta ora il dramma di Camus. Come scrive nei diari, verso la fine del ’49, «chi potrà dire la pena dell’uomo che ha preso le parti della creatura contro il creatore e che, persa l’idea della propria innocenza e di quella degli altri, giudica la creatura, e se stesso, criminale quanto il creatore?». Nel giugno del ’47 affermava, riguardo all’amore, che dovrebbe scaturire dalla rivolta, «Ma ciò esige un’innocenza che io non ho più». Nello stesso mese annotava ancora: «Dal momento che non accetto la negazione pura e semplice (nichilismo o materialismo storico) della “coscienza virtuosa”, come la chiama Hegel, devo trovare un termine medio. È possibile, è legittimo essere nella storia, appellandosi a valori che vanno al di là della storia?». Ma «In base a che cosa, chi e perché giudicheremo? … Ah sono le ore del dubbio. E chi può portare da solo il dubbio di tutto un mondo?» 

È dal tormento di questi dilemmi che nasce L’uomo in rivolta (1951) in cui l’esperienza dell’assurdo viene a superarsi a partire da un pensiero «meridiano» il quale pur non fondando valori trascendenti la storia, di fatto li presuppone. Permane la rivolta metafisica, mediante l’accusa di Ivan Karamazov  a partire dal dolore dei bambini innocenti, ma la minaccia che proviene dall’uomo costringe ora ad abbandonare la quieta «indifferenza» di Meursault, l’indifferenza degli stili di vita in forza del non senso del mondo. 

Nel periodo che segue L’uomo in rivolta lo scritto più importante è La caduta (1954). In esso il tema della colpa emerge secondo un’intensità che non ha precedenti nell’opera camusiana. L’innocenza felice di Nozze a Tipasa pare lontana. Come confessa Clamence, il protagonista de La caduta: «Si, abbiamo perduto … la santa innocenza di chi sa perdonare a se stesso. […] Vorremmo nello stesso tempo non essere più colpevoli e non fare lo sforzo di purificarci [… ] Non abbiamo energia né per il male né per il bene [ …] Siamo nel vestibolo dell’inferno». Occorrerebbe la grazia. Questa era la pretesa più profonda di Camus: «Senso della mia opera: − scriveva sul finire della guerra − Tanti uomini sono privi della grazia. Come vivere senza la grazia?».

Questa luce d’amore che dovrebbe riscattare e rischiarare il male del mondo negli scritti dell’ultimo periodo appare problematica. In un frammento scritto verso la metà del ’49 Camus stesso coglieva, con rara efficacia e bellezza, la difficoltà della cosa: «Quando si è visto una volta sola lo splendore della felicità sul viso di una persona che si ama, si sa che per un uomo non ci può essere altra vocazione che suscitare questa luce sui visi che lo circondano … e ci si strazia al pensiero dell’infelicità e della notte che gettiamo, per il solo fatto di vivere, nei cuori che incontriamo».





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