IDEE/ Alberto Sordi aveva “previsto” il nostro autismo digitale…

- Giuseppe Di Fazio

L’antropologa Sherry Turkle, in un libro da poco tradotto in Italia, Insieme ma soli, indaga gli effetti delle nuove tecnologie e dei nuovi media sulla nostra persona. GIUSEPPE DI FAZIO

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Nell’era della connessione permanente alla Rete ci ritroviamo sempre più soli. Dopo aver fatto fuori Dio, infatti, è scomparso dal nostro orizzonte anche il prossimo. Così, lo psicoanalista Luigi Zoja può scrivere che l’uomo di oggi è “un orfano senza precedenti nella storia”.

Detta così sembra un’affermazione da «umanisti conservatori» su una questione che, in realtà, presenta molte sfaccettature. Chi lascia le convenzioni di una vita per affacciarsi sui social media compie spesso uno strappo rispetto alla monotonia dell’esistenza. Strappo che può anche essere la coraggiosa rottura con abitudini e riti ormai vuoti. Facebook può così risultare, come scrive in un prezioso saggio l’italianista Antonio Di Grado, «quel davanzale da cui ogni giorno ti affacci per dire la tua sul mondo». Ma resta da vedere se questa forma di comunicazione virtuale riesca a superare la solitudine. Perché spesso siamo “insieme ma soli”, come documenta magistralmente l’antropologa del cyberspazio Sherry Turkle in un libro da poco tradotto in Italia. Insieme perché sempre connessi, sempre a contatto con gli amici su Facebook o su altri social media. Ma soli perché i rapporti intessuti nella Rete restano spesso soltanto virtuali e producono, alla lunga, per citare ancora Zoja, un “autismo digitale”.

Il problema ha assunto contorni talmente rilevanti da avere oltrepassato ormai i fragili confini della pedagogia o della psicologia, per divenire un rompicapo anche dei guru dell’ingegneria informatica. Perché a tutto la tecnoscienza pensa di poter dare risposta. Anche alla domanda di compagnia e di amore presente nel cuore di ogni persona.

Ogni essere umano è fatto per relazionarsi agli altri e in questo rapporto prova soddisfazione. Lo sanno anche i cyberingegneri che hanno creato robot che non si limitano solo a svolgere lavori difficili o di alta precisione (come può essere il disinnesco di ordigni o l’effettuazione di interventi chirurgici di alta precisione) ma che puntano anche a essere nostri compagni, partner sessuali, se non addirittura amici.

I robot ci si presentano come la nuova risposta alla domanda di una compagnia senza rischio di essere traditi o abbandonati. Pensiamo a quanto già accade coi nuovi giocattoli-robot per bambini: dai tamagotchi ai My Real Baby che sostituiscono ormai i giochi o le bambole di una volta. O pensiamo al robot “Caterina”, reso celebre da un film di Alberto Sordi. Il protagonista di quel film, stanco delle difficoltà nei rapporti con la moglie, con la segretaria-amante e con la cameriera, sceglie di procurarsi un robot tuttofare dalle fattezze femminili (Caterina). E come la Caterina del film, anche i robot di oggi mostrano sensibilità. Al punto tale che, i prototipi più perfezionati, ci guardano negli occhi, possono parlarci e ci chiedono di prenderci cura di loro. Per i loro ideatori sono partner ideali: le persone deludono, i robot no; i cani sono fedeli, ma muoiono; i robot no.

Sia i robot sociali sia i social media ci allettano offrendoci la possibilità di avere relazioni secondo i nostri gusti e le nostre aspettative. Ma, avverte, Sherry Turkle, “gradualmente arriviamo a considerare la nostra vita online come la vita stessa. Arriviamo a considerare ciò che ci offrono i robot come una relazione”. «Queste sembrano le avvisaglie – scrive la Turkle – di una catastrofe».

Val la pena, dunque, chiederci – come fa l’antropologa del cyberspazio – dove stiamo andando e cosa ci perdiamo.

È molto interessante notare come la riflessione scientifica della Turkle, condotta in anni di studio fianco a fianco coi colleghi del Mit di Boston, si approfondisca nel paragone concretissimo e reale con la figlia Rebecca.

Illuminante per la studiosa americana, abituata a convivere con l’alta tecnologia del futuro, è l’episodio concretissimo dell’anno sabbatico trascorso dalla figlia Rebecca a Dublino per motivi di studio. Come tanti genitori dei nostri giorni la Turkle comunica con Rebecca via Skype (anche se “Su Skype ci si vede a vicenda, ma gli sguardi non s’incrociano”) o via sms. Ma «a un certo punto, mentre le sto scrivendo un sms – racconta − sperimento un fisiologico momento di presa di coscienza della mia mortalità. Tra quarant’anni, cosa saprà Rebecca del cuore di sua madre mentre lei cercava la sua strada verso qualcosa di nuovo?».

Scatta così nell’antropologa statunitense una strana nostalgia che la porta a cercare in cantina le scatole con la corrispondenza con la propria madre nel periodo del suo primo anno al college: «Le nostre lettere − scrive in Insieme ma soli −  erano lunghe, sentite e conflittuali. Ci stavamo separando, stavamo cercando la nostra via verso qualcosa di nuovo. Quarant’anni dopo ritrovo le lettere, ed è come se tenessi in mano il cuore di mia madre». «Immagino mia figlia tra quarant’anni −  prosegue la Turkle −  senza una traccia concreta delle nostre conversazioni. Perché il digitale è effimero solo se non ci prendiamo la briga di renderlo permanente».

La studiosa statunitense sperimenta sulla propria pelle, nel rapporto con la figlia lontana, il desiderio di un rapporto fra persone, il desiderio di qualcosa che duri nel tempo.

Si fa strada in lei una strana, ma innata, esigenza di un “per sempre”. E non può non parlarne con i colleghi scienziati con cui condivide le ricerche.

La tecnologia si offre di rispondere anche a questa domanda del “per sempre”, ma lo fa con i suoi strumenti. Nasce il progetto “MyLifeBits”. È un modo per raccontare la storia della nostra vita ai nostri figli e nipoti. Il suo programma aspira ad essere lo strumento definitivo per la registrazione della vita.

Tutto della nostra vita verrà “registrato”: ciò che vediamo, tutto ciò che scriviamo, cosa ascoltiamo, chi incontriamo. Questi “ricordi” verranno scaricati sul computer e questo ci darà “una sensazione di pulizia”.

La Turkle discute di questa ipotesi con la figlia diciannovenne. Ma alla ragazza, acutamente, il progetto non va giù, a lei «interessa di più l’atto di ricordare, che filtra ed esclude, e che mette gli eventi in sfere dal significato mutevole: un quaderno per gli schizzi, un diario».

«Mentre parlo con Rebecca della bellezza della corrispondenza con mia madre − scrive ancora la Turkle − lei osserva, giustamente: “Allora scrivimi”. E così ho fatto». Non è una sconfitta della scienza. È il prevalere di ciò che riteniamo essenziale, è un modo per tornare realmente insieme.





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