LETTURE/ Rilke, l’inquetudine e l’attesa dell’eterno

- Francesco Roat

“Noi uomini siamo sempre tesi/presi rispetto a un altrove che non ci permette di vivere appieno il qui e ora del presente”. Una riflessione sulle Elegie duinesi di R.M. Rilke. FRANCESCO ROAT

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L’inizio della stesura delle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke – avvenuto a Duino (Trieste) durante il gennaio del 1912 nel castello omonimo dell’amica principessa Marie Thurn und Taxis Hohenlohe – segna una felice ripresa rispetto alla profonda crisi creativa che aveva colpito il poeta nel 1910. Nella solitudine invernale di Duino, infatti, Rilke scrive di getto le prime due Elegie, qualche rigo di altre poesie del ciclo, nonché i primi dodici versi di quella che sarà l’Elegia conclusiva: la Decima. Segue quindi una nuova stasi, destinata a perdurare anche causa lo scoppio del primo conflitto mondiale. Solo qualche anno dopo la conclusione della guerra, in Svizzera, presso un altro castello (quello di Muzot) e ancora una volta durante un inverno solitario, nel 1922 si ripete per Rilke il miracolo accaduto un decennio prima: in pochi giorni le Duinesi vengono finalmente riprese e terminate. In una lettera all’amica principessa il poeta esprime la sua gioia estatica per la conclusione dell’opera: “Tutto in pochissimi giorni, fu una tempesta senza nome, un uragano nello spirito (come allora a Duino), tutte quante le mie fibre e i tessuti stridevano, a prender cibo mai fu possibile pensare, sa Dio chi m’ha nutrito”.

Dopo le Elegie Rilke non cessa di scrivere: comporrà un nuovo ciclo poetico in tedesco (I sonetti a Orfeo) e quattro raccolte di poesie in francese. Ma la fine si sta approssimando. Iniziano a manifestarsi i segni dolorosi della malattia (leucemia) che lo porterà a spegnersi – dopo una via crucis di ricoveri in sanatori, riprese e ricadute – nel dicembre del 1926.

Edite ancora nel 1922, le Duinesi non godono all’inizio di grande diffusione e celebrità. Solo a distanza di anni la loro fama verrà a consolidarsi, tanto che a tutt’oggi esse sono considerate da buona parte dei critici l’opera poetica più pregnante in lingua tedesca dell’intero novecento. Un testo non di facile lettura, però, in quanto a tratti criptico e assai difficilmente parafrasabile; per non parlare delle parti in cui l’esoterismo e il carattere speculativo di molte strofe fanno virare la poesia delle Duinesi in discorso filosofico-didascalico, viziato da un’urgenza esplicativa che a tratti induce il verso a eccessi argomentativi, nonché a esiti ridondanti. 

Ma forse proprio tale ambivalenza discorde, questo paradossale alternarsi di espressività magistrale e di (sia pur rare) cadute stilistiche, questa commistione d’intensità ed enfasi è l’inevitabile limite di opere che, come le Duinesi, vogliono porsi quale discorso inteso ad abbracciare microcosmo e macrocosmo, uomo e universo, realtà mondana e oltremondana, trattando di tematiche da far tremar le vene e i polsi: quali l’angoscia e al contempo la felicità di vivere pur nell’orizzonte della finitudine, l’inesausta e mai paga tensione desiderante, la riconsiderazione della morte come mutamento all’interno di un essere che mai viene meno, il significato più sublime della gioia quale accettazione nei confronti dell’esistenza, qualunque cosa essa rechi con sé.

Sintetizzare in breve i molteplici nuclei poetici, gli innumerevoli temi o anche solo gli interrogativi posti dalle Duinesi potrebbe rivelarsi operazione riduttiva. Basti qui dire che il poeta riflette soprattutto intorno all’uomo, la cui consapevolezza d’esser destinato a scomparire lo rende inquieto e inappagato. A differenza dall’angelo (simbolo di quanto giammai perisce) e dell’animale che – incosciente rispetto alla fine che lo attende – vive in modo assai più naturale e spontaneo, noi uomini siamo sempre tesi/presi rispetto a un altrove che non ci permette di vivere appieno il qui e ora del presente.

A tutta prima, sembra quasi per Rilke non vi sia modo di sanare la nostra perenne insoddisfazione/inquietudine. Gli angeli, queste figure che alludono all’ambito metafisico, sono così lontani e altri da noi. L’amore pare all’inizio promettere pienezza e beatitudine agli amanti, ma è durevole? Per Rilke l’eros è semmai ambito abissale: un’inquietante energia caotica destabilizzatrice, che vanamente noi tentiamo di imbrigliare attraverso vincoli sentimentali/coniugali. Il mondo civilizzato poi – denuncia il poeta – è un teatro di apparenze ed inautenticità. Appena nell’età infantile, quando eravamo lieti di ciò che perdura e stavamo lì/ nell’interstizio fra mondo e giocatolo, vi era spontanea naturalezza che recava in sé il miracolo di una gioia profonda; ma l’infanzia ha breve corso e sin troppo presto il bambino estatico si fa adulto cinico. Neppure gli artisti erranti più eccentrici, gli acrobati: questi un po’/ più fuggitivi di noi stessi realizzano davvero l’opera d’arte per antonomasia costituita dal dimorare quietamente/semplicemente nell’hic et nunc.

Potrebbe farlo tuttavia ogni uomo, se solo si rendesse conto di quanto può esser felice una cosa. Paradossalmente persino una dolorosa; addirittura la morte, che è idea santa della Terra e va accettata e “vissuta” non come negazione dell’esistere ma come sua parte oscura e mistero ineffabile. Arcano cui è dato accostarci non tramite il logos ma attraverso una parola metaforica che ci mostri come non vi sia separazione antitetica, vera contrapposizione fra il declino e l’accrescimento, la nascita e il decesso, la gioia e il dolore. Compito di noi umani allora, per il poeta è, in primis, rendersi conto di come: “Essere qui è meraviglioso” e, in secondo luogo, consiste nella celebrazione di tutte le cose, le quali: “Vogliono che noi le si debba trasformare del tutto nel cuore invisibile/ in – oh, all’infinito – in noi! ”. Non vanno temuti altresì il declino e la perdita perché, nell’ottica rilkiana, nulla davvero viene meno ma tutto solo si trasforma permanendo.

È la lezione mistica della Decima Elegia che, si accennava, non vede la morte come annichilimento definitivo, ma quale transito verso l’“altro rapporto” in un eterno perdurare. Così la stessa concezione di felicità quale possesso o accrescimento può mutar di segno se accogliamo l’idea che essa possa darsi pure nella spoliazione o nel declino, come suggeriscono gli splendidi versi finali delle Duinesi: “Ma se risvegliassero, i morti senza fine, una metafora in noi,/ vedi, forse indicherebbero gli amenti degli spogli/ noccioli, penduli, oppure/ accennerebbero alla pioggia, che cade sulla terra scura in primavera./ E noi, che pensiamo a una felicità in ascesa,/ avvertiremmo la commozione,/ che quasi ci sconcerta/ quando qualcosa di felice cade.





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