A volte mi chiedo che cosa avrebbe detto o scritto Giovanni Testori del tale o tal’altro fatto che stanno interrogando le nostre coscienze (e mi chiedo quasi sempre in parallelo anche che ne avrebbe detto Pasolini). Il caso più attuale è un caso molto particolare che tocca un risvolto certamente non secondario dell’attività culturale di Testori: un migliaio di storici dell’arte (insegnanti di liceo, docenti universitari, ricercatori) si sono infatti dati appuntamento di recente a L’Aquila per alzare la voce contro lo stato di abbandono in cui è rimasto dopo il terremoto il centro storico della città.
Un’iniziativa del tutto inedita e senza precedenti, certamente caratterizzato da una certa connotazione ideologica: ma come sempre mi è stato insegnato, bisogna guardare alle cose tralasciando i preconcetti e partendo dai dati di realtà. E la realtà parla dolorosamente di un centro storico meraviglioso, un concentrato incredibile di chiese, di palazzi, di strade e di piazze che da oltre quattro anni vivono in una situazione spettrale di attesa che ha il sapore della dimenticanza.
Che cosa si può fare per salvarlo? Ora, il fatto che un migliaio di studiosi invece di pontificare abbiano preso l’impegno di trovarsi, guardare con i propri occhi e discutere è già un fatto significativo. Potrei immaginare che Testori parlandone sarebbe ricorso ad una parola che è tra le più ricorrenti nei suoi scritti più “militanti”: l’autoconvocazione degli storici dell’arte è un “fatto civile”. Testori amava la dimensione “civile” della cultura, sin dagli anni del suo lavoro nel laboratorio culturale dell’Olivetti a Ivrea: è quella dimensione che lo portò per anni a girare e studiare le chiese più sperdute nel nord d’Italia, quella che lo portava sempre a percorrere strade dimenticate dalla grande cultura, a valorizzare e difendere il protagonismo della provincia. È la dimensione civile che lo mosse negli anni 50 a studiare quel meraviglioso complesso catalogato come minore, che era il sacro Monte di Varallo. Studiarlo, difenderlo, rivendicarne la grandezza e sostenerne i restauri e la salvaguardia per lui era tutt’uno, sino a pubblicare quel libro, Il Gran Teatro Montano che resta un modello nell’editoria d’arte italiana: un libro “popolare” accessibile a un pubblico vasto nella formula e nel prezzo, curatissimo nei particolari e sul quale Feltrinelli puntò una tiratura da larga diffusione.
Ho quindi la convinzione che Testori, nonostante la sua idiosincrasia per manifesti e convocazioni, all’iniziativa dell’Aquila avrebbe guardato con simpatia. Me lo fa credere un altro particolare: gli storici dell’arte, oltre a sostenere giustamente che il recupero del centro storico dell’Aquila è un fatto non locale ma nazionale («una tragedia italiana», l’ha definita Tomaso Montanari, uno dei promotori), sostengono che una linea di un recupero e la ricostruzione materiale dei monumenti sia affidata più alle mani (e alla visione) di artigiani specializzati che non a star dell’architettura, come da più parti è stato ventilato, che ne farebbero una sorta di “disneyland antiquariale”.
Per il patrimonio artistico del nostro paese la sfida non è solo quella della conservazione. Il patrimonio deve tornare ad essere un fatto vissuto e partecipato, altrimenti avremo solo fatto una costosissima museificazione. Testori questo lo sapeva bene, e per questo si spendeva tanto non solo per la difesa di tanti tesori anche sperduti, ma per far sì che la gente che attorno a quei tesori viveva, tornasse ad appassionarsene, o addirittura ad “appropriarsene”. La coscienza civile infatti non è una dinamica fredda di controllo e di salvaguardia, ma vive di passione, di innamoramenti, di senso di appartenenza, a volte anche di parzialità. C’è da sperare che una dinamica del genere possa scattare anche per l’Aquila. Se mille storici dell’arte si sono autoconvocati per riaccendere i riflettori sul destino di uno dei centri storici più belli d’Italia, come non augurarsi che riescano nel loro impegno? Scommetto che Testori un articolo per incoraggiarli lo avrebbe scritto…