Negli scorsi giorni la Camera dei Lords di Londra ha dato il via libera alle nozze gay, respingendo a larga maggioranza un emendamento che avrebbe bloccato l’iter parlamentare della proposta di legge e dando così il via allo stadio finale del processo legislativo. Un nuovo successo del leader sedicente conservatore David Cameron, le cui mire di rielezione nel 2015 hanno determinato questa tattica di “sfondamento a sinistra”, nel tentativo di guadagnare consensi tra l’elettorato di sinistra, presupponendo che la maggior preoccupazione del paese non sia la crisi economica ma l’estensione di presunti diritti civili come il matrimonio gay, in un paese come la Gran Bretagna dove peraltro esiste già da tempo l’istituto delle “unioni civili”.
Il voto della Camera Alta è stato sorprendente, segno di una evoluzione del pensiero diffusa ormai tra le élites britanniche. La Camera dei Lords infatti è sempre stata l’espressione della Tradizione. Ma forse questo “tradimento” dei custodi della Tradizione non è poi così sorprendente: i Lords rappresentano la Gran Bretagna nei suoi pregi ma anche nei suoi difetti. Sono uno specchio del paese.
“Non si devono guardare né le cose né le persone. Bisogna guardare solo negli specchi. Perché gli specchi non ci mostrano che maschere”. Così aveva scritto Oscar Wilde nella tragedia Salomè. Proprio il grande autore irlandese fu protagonista sul finire dell’800 di una vicenda che apparentemente può sembrare un episodio di grave omofobia, subita proprio da parte di un Lord, di un membro importante dell’aristocrazia britannica, ma che in realtà, dopo più di un secolo, ci può far riflettere su quanto ci sia in gioco sulle questioni relative al matrimonio e la famiglia.
Wilde, che era sposato con una donna che amava teneramente ma alla quale non riusciva ad essere fedele, e che aveva due figli cui dedicò le sue meravigliose fiabe, aveva intrecciato una relazione omosessuale con Lord Alfred Douglas, figlio del Marchese di Queensberry, uno dei più influenti Pari del Regno. Queensberry non era certo un bacchettone: era un feroce anti-clericale che faceva parte di associazioni di atei e secolaristi, ma quella relazione particolare del figlio proprio non gli andava giù.
Queensberry insultò pubblicamente Wilde con un biglietto in cui accusava lo scrittore di “atteggiarsi a sodomita”.
La rovina di Oscar Wilde ebbe inizio da questo messaggio provocatorio. Più che Oscar, fu Bosie (il nomignolo di Alfred Douglas) a reagire furiosamente a questo biglietto. Fece di tutto per convincere Oscar a querelare suo padre, a trascinarlo in tribunale. Bosie voleva la sua vendetta personale. Lo scontro con il padre era giunto agli estremi: il suo sogno era vederlo in carcere, vinto e umiliato.
Nel marzo 1895 Wilde querelò Queensberry per diffamazione.
La causa intentata ai danni del Marchese di Queensberry, John Sholto Douglas, formalmente definita “Regina versus Queensberry”, cioè lo Stato contro il marchese, iniziava in questi termini: “per aver ingiustamente e maliziosamente scritto e reso di pubblico dominio o fatto scrivere e divulgare ai danni del suddetto Oscar Wilde, un’ingiuria, falsa, maliziosa e diffamatoria”.
Wilde affrontò gli inizi del processo con disinvoltura e sicurezza, quasi si trovasse sul palcoscenico alla prima di una sua opera, o stesse tenendo una delle sue brillanti conferenze di fronte ad un pubblico rapito.
Tuttavia, se il pubblico che affollava il tribunale la principale attrazione erano le pose e le battute di Wilde il quale aveva deciso di dare una delle proprie migliori interpretazioni del dandy che con acume ed eleganza si fa beffe della società, l’interlocutore principale che Oscar aveva di fronte − cioè l’avvocato di Queensberry Edward Carson − era assolutamente refrattario al suo charme, ed era un personaggio temibilissimo.
Carson, eccellente avvocato, fu anche uno dei più importanti politici britannici del primo 900. A lui si deve, purtroppo, la tragica spartizione dell’Irlanda che tante vittime e lutti ha procurato nel secolo scorso. L’interrogatorio di Wilde da parte di Carson fu una vera sfida tra titani: Oscar appariva a proprio agio sul banco dei testimoni, la giuria seguiva attentamente lo svolgersi del dibattimento.
Carson cercò di portare alla luce la vita di Wilde, un’esistenza dedita al piacere, sempre in compagnia di giovani ai quali non lesinava regalie e cene a base di champagne: aveva impostato la difesa di Queensberry sull’attacco diretto a Wilde per dimostrare che il suo cliente non era un diffamatore, ma aveva semplicemente rivelato la verità nascosta dello scrittore. L’avvocato infatti portò sul banco dei testimoni diversi ragazzi, prostituti e ricattatori, scovati dagli investigatori privati sguinzagliati dal Marchese in tutta Londra, che deposero contro Wilde, testimoniando di averlo frequentato intimamente. In realtà si trattava di conoscenze di Bosie, il cui nome Carson riuscì a tenere completamente fuori dal processo; furono le testimonianze di questi individui, che un tribunale più equo avrebbe dovuto valutare più criticamente visto che non era affatto provato che Oscar avesse consumato atti sessuali con costoro, ad inchiodare Wilde.
Il suo avvocato, Sir Edward Clarke, che non era assolutamente all’altezza di Carson, ritirò l’accusa di diffamazione nei confronti di Queensberry, e a quel punto fu Carson a chiedere a sua volta l’incriminazione di Wilde.
Egli fu infatti accusato di crimini contro l’undicesimo articolo dell’Amendment Act, la Riforma del codice penale inglese, del 1885: gravi atti di indecenza.
Ora iniziava un nuovo processo: Regina versus Wilde. Il dibattimento si svolse rapidamente con un esito scontato: il 25 maggio 1885 Oscar Wilde fu condannato a due anni di carcere e di lavori forzati.
Queensberry era pur sempre un membro dell’alta società britannica, un uomo che aveva servito l’Impero, una gloria dello sport nazionale; Wilde lo aveva portato in tribunale, chiedendone la condanna come diffamatore, e la società britannica si era stretta compatta intorno al Marchese. Il processo fu talmente ipocrita che non chiamò neppure in causa Lord Alfred Douglas, nonostante fosse evidente a tutti che il suo rapporto con Wilde aveva originato il conflitto tra lui e suo padre, e si dovettero chiamare in causa delle terze persone, i giovani marchettari dei bassifondi, per incastrare Wilde, e questi si guardarono bene dal dire che in realtà tra i loro clienti c’era Bosie, e neppure vennero incriminati dopo le loro deposizioni, nonostante fossero in qualche modo rei confessi! Avevano fatto il loro lavoro, e ciò era sufficiente.
Non fu dunque, per questi motivi, un processo all’omosessualità come tale. Wilde pagò la colpa non tanto di avere avuto rapporti omoerotici, ma di avere infranto il muro di omertà che vigeva intorno all’omosessualità. Si poteva fare, ma non di doveva dire, questa era la legge non scritta che andava rispettata.
L’omosessualità, diffusa soprattutto tra le classi alte, presentava diversi vantaggi: garantiva la possibilità di fare attività sessuale al di fuori del matrimonio senza troppi rischi: era pericoloso infatti farsi vedere con signore e signorine, mentre accompagnarsi a giovanotti − impiegati, studenti, collaboratori − destava molti meno sospetti. Inoltre non c’era la pesante spada di Damocle di impreviste e imbarazzanti complicazioni tipiche del rapporto con il sesso femminile come possibili gravidanze della partner. I rapporti omosessuali rappresentavano insomma per un gentleman un divertimento sicuro, rilassante, a facile portata di mano. L’importante era che il tutto non fosse troppo pubblicizzato, si svolgesse in modo ovattato e discreto, salvaguardando le forme di una società puritana.
Wilde invece era stato troppo teatrale nei suoi comportamenti: non per niente il biglietto provocatorio di Queensberry che aveva portato alla causa giudiziaria era rivolto ad un Wilde che si atteggiava a sodomita.
In qualche modo Wilde rischiava di rivelare un sottobosco nascosto, e la società inglese non poteva permetterselo. Non era essa ad aver voluto quel processo, a volere che la questione venisse alla luce, ma chiamata a difendersi lo fece con tutta la sua violenza, paludata di rispettabilità.
Il carcere distrusse Oscar Wilde, ma allo stesso tempo gli aprì gli occhi. In un’opera tragica e intensa, intitolata De Profundis, prese le distanze dalla sua vita precedente, dagli errori commessi, dalle debolezze in cui era caduto. Una volta uscito dal carcere, malato, solo, fallito e costretto a lasciare l’Inghilterra, trovò consolazione nella Fede.
Si convertì al cattolicesimo in punto di morte a Parigi, il 30 novembre del 1900. Aveva scritto che la Chiesa cattolica era per i santi e per i peccatori, e che era la sola in cui avrebbe voluto morire.