Quello che era sentire comune è diventato patrimonio di tutta la Chiesa. Don Pino Puglisi è beato. In questa intervista concessa a ilsussidiario.net il postulatore della causa di beatificazione e autore della biografia ufficiale, monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, approfondisce il messaggio che la vita e il martirio di don Puglisi offrono a tutti, fedeli e non. Perché la gioia e l’entusiasmo che hanno accompagnato la sua beatificazione non si esauriscano nella cerimonia del 25 maggio scorso, ma permangano nella coscienza della Chiesa e in tutta la società palermitana e italiana.
Eccellenza, qual è il messaggio che viene dalla canonizzazione di don Pino Puglisi per l’Italia e per i credenti?
Padre Puglisi costituisce un luminoso esempio di vita sacerdotale. La sua beatificazione segna una tappa importante nel cammino di liberazione dalla mafia come da qualsiasi forma organizzata di malavita, combattuta con la forza che viene dalla fede in Cristo, vissuta con radicalità evangelica che non ammette compromessi, né prudenti silenzi. Essa è, pertanto, il suggello dell’unico atteggiamento che la Chiesa può avere: chi è fuori dalla Legge del Vangelo, che è legge di amore, anzitutto, e di rispetto dell’uomo in quanto creatura di Dio, è fuori dalla comunione di fede. Non bastano i santini, le immagini, le icone sacre, le Bibbie a mascherare il regno dell’anticristo: non ci sono vie di mezzo, non ci sono atteggiamenti di facciata che tengano.
Don Puglisi è stato ucciso in odio alla fede. Qual è stata la vera lotta alla mafia di don Puglisi?
Verbalismo, estetismo e moralismo sono tre difetti che a volte, ai giorni nostri, macchiano l’agire della Chiesa e dei suoi ministri. Nulla di tutto ciò si rinviene nella vita e nell’opera di Puglisi, caratterizzate invece da altri tre ma differenti e fondamentali punti: la Parola, le parole, i fatti. La prima ha illuminato la sua vita, con le seconde ha formato le coscienze, con i fatti e con il martirio ha fatto della sua esistenza un capolavoro di fede e dignità. Un secolo prima, all’incirca, il medico e sacerdote Giacomo Cusmano aveva fatto le medesime cose per affrancare i poveri, gli esclusi, gli ultimi vessati e abbandonati dai potenti e dai ricchi nell’avvilente stato di miseria e di ignoranza totale, innalzandoli alla dignità umana e sacramentale. E don Puglisi aveva ben chiaro in mente il bisogno di ripristinare il volto umano della comunità per giungere a una dimensione diffusa della condivisione del Vangelo. Il suo obiettivo pastorale si tradusse così, in ambito sociale, in un’evangelizzazione a tutto campo, con un’attenzione preferenziale alle giovani coppie, ai ragazzi, agli adolescenti, e questo significava per le cosche sottrarre alla loro chiesa i sudditi ricattati dall’ignoranza, dalla paura, dalla violenza dall’illegalità e dal disprezzo della legge di Cristo.
Sulla base di quali argomenti si distingue il martirio di don Pino Puglisi dai tanti uccisi dalla mafia?
Uccidendo Puglisi si volle colpire non solo l’uomo, ma anche la fede di cui il suo ministero pastorale era intriso. E fu proprio questo a costargli la vita: essere un uomo libero, armato della sola forza della fede. Emblematico, al riguardo, un colloquio tra Leoluca Bagarella e l’ex mafioso Tullio Cannella, cristallizzato nelle sentenze ormai passate in giudicato: Puglisi doveva morire perché predicando “tutta la giornata” – dovunque, non solo in parrocchia – sottraeva i bambini alla malavita. E questo i capibastone non potevano tollerarlo, essendo un danno per Cosa nostra. Insomma, Puglisi viene giustiziato per l’odio che i mafiosi nutrono verso la sua fede e verso il suo servizio sacerdotale. È uomo di fede, che con la fede contrasta e mette in ridicolo il dio-potere degli uomini di mafia. Rispetto al sacrificio di giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e altri rappresentanti delle forze dell’ordine caduti in Sicilia, veri eroi civili, il martirio di don Puglisi porta con sé un messaggio specifico per i cristiani: una lezione di fede da additare a tutta la comunità negli anni a venire.
Quali vie ha indicato don Puglisi per liberare la gente del Sud dai tentacoli della criminalità organizzata?
Non è la lotta contro la mafia la parola profetica del beato, ma la sua pienezza sacerdotale, l’annuncio pieno e senza timori della salvezza del Vangelo, la proposta di un’educazione autentica al bene per accogliere il fratello e insieme lodare il Signore nella libertà dei figli di Dio: la sua testimonianza evangelica è la più forte lotta alla mafia. Già in precedenza non erano mancate le occasioni concrete in cui la Chiesa siciliana, e quella palermitana in particolare, guidata dal cardinale Pappalardo, aveva richiamato le coscienze di Sicilia al pentimento e al ritorno sulla via della vita. Ma la pubblicazione, nel 1991, del bellissimo e significativo documento Cei “Educare alla legalità”, e poi nel 1993 la visita in Sicilia di Papa Giovanni Paolo II e la morte di Puglisi segnano il cambio di rotta, il giro di boa: da quel momento, la denuncia civile diventa la regola, accompagnata anche da una più incisiva azione pastorale portata avanti da tutti e volta alla riaffermazione dei principi evangelici nella loro dimensione umana, morale e sociale. Con Puglisi la risposta non è più mutuata attraverso le sole categorie dell’impegno civile e sociale: ad esse vengono affiancate, con convinzione e determinazione, anche quelle ecclesiali. È la verità che squarcia il velo dell’ipocrisia: non esistono mafiosi buoni e mafiosi cattivi, ma una mafia nemica di Cristo e nemica dell’uomo, da combattere con la Parola, l’esempio, la testimonianza. Soprattutto, è il segno di una nuova coscienza civile: nulla poteva essere più come prima, e nulla lo è stato, nella considerazione del fenomeno mafioso.
L’amore di don Pino per i propri fedeli, soprattutto quelli deboli, quanto ha inciso nella lotta contro le organizzazioni mafiose e il male diffuso rispetto a marce e convegni?
Rispondo prendendo a prestito proprio le parole di don Puglisi, che così diceva di intendere la sua missione in terra nemica: «È importante parlare di mafia, soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi. Non ci si fermi però ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore ma se ci si ferma a questo livello sono soltanto parole. E le parole devono essere confermate dai fatti.
Quale speranza possono cogliere i giovani da questo autentico testimone della fede: il Beato Pino Puglisi, sacerdote?
Puglisi è stato ed è un segno teologico della presenza del Signore, che deve essere venerato e pregato, ma soprattutto imitato. Solo così continuerà ad essere un raggio di sole primaverile, una buona notizia, un messaggero di parole di risurrezione e di vita. Col suo esempio, il Beato invita a mostrare a se stessi e in particolare ai giovani che vale la pena di lottare per poter cambiare, per migliorarsi, per convertirsi e convertire. Ai sacerdoti ed a tutti gli autentici cristiani dice: agite sempre con semplicità, non per affermare pur nobili ideali civili, bensì per amore di Cristo ed in nome del Vangelo, perché soltanto dove la croce di Cristo e l’autodonazione sono il criterio della vita, il seme del Vangelo cresce, le coscienze maturano e si diventa annuncio, denuncia e profezia, a volte, anche senza profferir parola. La sua fede generosa e coerente ne fa in eterno un messaggero dell’amore di Dio, un testimone mite e credibile dell’Evangelo della vita e della dignità umana, uno stimolo a vivere con coerenza il Vangelo. Puglisi è, ripeto, una buona notizia, un raggio di sole primaverile che riscalda i cuori ed illumina le menti di quanti perseguono nobili ideali e la santità della vita.