Premetto di avere grande stima per Dolce e Gabbana. Sono convinto che siano degli straordinari ambasciatori dello “spirito” italiano. Disegnano una moda piena di energia, vitale, che viene comunicata attraverso campagne che non possono non far innamorare del nostro paese. Li ritengo un prezioso antidoto al clima iperdepressivo che ci circonda (non fosse altro per i fatturati che fanno e per la loro capacità di dribblare la crisi). Sulla polemica che li ha visti contrapposti al comune di Milano sto ovviamente dalla loro parte, anche ammirando la loro capacità mediatica di cavalcare la disgraziata battuta dell’assessore che li ha attaccati.
Premesso questo e sgombrato il campo da ogni moralismo anti moda, c’è però un altro tema che non può essere eluso. La moda italiana, grazie al cielo, è un settore che non conosce crisi. Macina fatturati in alcuni casi straordinari, apre punti vendita in ogni angolo del mondo (aprite il sito di D&G e guardate dove hanno negozi: l’Italia è una piccola cosa nel loro orizzonte globale). Eppure ha un grande problema da affrontare: quello della cultura. Non è semplicemente una questione di mancato mecenatismo, perché semmai in questa direzione la decisione di Tod’s di investire sul restauro del Colosseo potrebbe rappresentare forse una svolta. La moda italiana non dissemina cultura né a livello base (nella formazione), né a livello alto e simbolico.
Stiamo assistendo in questi mesi all’offensiva dei due colossi francesi che hanno acquisito tanti marchi italiani: sono i gruppi che fanno capo a Bernard Arnault e a Daniel Pinault. Sono due multinazionali del lusso che hanno capito che il valore aggiunto che l’Italia dà alle loro imprese è anche la cultura. La cultura può rappresentare una fondamentale compensazione “simbolica” rispetto a un’offerta, quella del lusso, che forzatamente riguarda solo una fortunata élite sociale. Proprio di qualche giorno fa è la notizia che Arnault, proprietario tra gli altri del marchio Fendi, ha preso in affitto l’intero palazzo della civiltà romana all’Eur per portarvi il quartier generale della casa romana. Il cosiddetto “Colosseo quadrato” è uno dei più begli esiti dell’architettura sotto il fascismo, progettato nel 1938 da Giovanni Guerrini, Ernesto Lapadula e Mario Romano.
L’operazione di Arnault va quindi nella direzione di restituire fortuna a quell’edificio ma anche di cavalcarne il fascino. Proprio pochi mesi fa, in occasione di una sua presentazione romana, Giorgio Armani aveva usato il Colosseo quadrato per una mega sfilata. Il suo era stato un mordi e fuggi, non un investimento convinto e strategico.
Si può ribattere che Armani è milanese e che un investimento del genere lo potrebbe fare nella sua città. Ma così non è mai accaduto per quanto abbia occupato moltissimi e strategici spazi a Milano. Lo stesso discorso vale per D&G.
E vale in fondo anche per Prada, che pur nel suo passato ha investito in una serie di mostre di arte contemporanea di grande importanza internazionale accolte negli spazi di via Fogazzaro a Milano. Trussardi, grazie all’intelligenza di Beatrice, è forse la casa che ha meglio colto l’importanza che l’investimento in cultura può avere per una casa di moda oggi. Ma guidata dall’estro di Massimiliano Gioni (il curatore della Biennale in corso) ha scelto la strategia di non investire su un luogo, quanto di fare una mostra all’anno “nomade” in luoghi sorprendenti e in disuso della città. Alla fine resta la documentazione, ma nulla per quei luoghi cambia.
Pinault ha seguito una strategia opposta: ha investito su un luogo strategico come pochi, la Punta della Dogana che domina il Bacino di San Marco. L’ha sistemato dopo decenni di decadenza, e a rotazione vi espone le sue collezioni. Ma intanto la Punta è tornata ad essere luogo aperto, sempre frequentabile nei suoi spazi pubblici, e vissuto: se vi capita di essere a Venezia, andateci la sera o la notte, è spettacolo senza pari.
Anche Prada a Milano ha investito enormi risorse per acquisire nuovi spazi in Galleria. Certamente nobiliteranno l’aspetto di questo luogo, lo renderanno più internazionale. Ma alla fine sempre di vetrine si tratta, anche se nella campagna pubblicitaria viene annunciato che, lassù, al terzo piano ci sarà anche spazio per l’arte.
Alla moda italiana manca lo slancio per capire che investire su luoghi di cui il nostro paese è ricco come nessun altro non è opera di mecenatismo, ma di sostegno e rafforzamento al sistema della moda stessa e alla sua immagine. Certo, poi bisogna trovare delle amministrazioni disposte a dialogare e a capire che questo va nell’interesse di tutti. Ma prima bisogna avere idee, convinzione. Bisogna avere il coraggio di uscire dal guscio dei propri scrigni dorati.