ANGELO SCOLA/ Perché noi cristiani riduciamo la portata della fede?

- int. Angelo Scola

Il cardinale ANGELO SCOLA interviene sull'enciclica di papa Francesco Lumen fidei. "Dio per preparare una città agli uomini, li vuole interlocutori. Non è una prospettiva affascinante?"

scola_sfondogialloR439 Il cardinale Angelo Scola (Infophoto)

“Non possiamo dire io senza dire il tu che ci precede”: è questa la memoria cristiana, dice a ilsussidiario.net il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, commentando l’enciclica di papa Francesco Lumen fidei. L’uomo fatica, la sua ragione è a tratti offuscata, ma l’appello di Nietzsche è iscritto nella nostra carne: “Se vuoi essere discepolo della verità, allora indaga”. Papa Francesco – spiega Scola – “ci aiuta a riconoscere il nucleo della vita cristiana, Gesù stesso che si offre a noi attraverso la Chiesa, e il volto vero dell’uomo, costitutivamente teso ad una luce che possa illuminare il suo cammino”.

Eminenza, la Lumen fidei insiste sulla parola “memoria”. Perché?
I riferimenti alla “memoria” sono, a mio avviso, tra i più belli di tutta l’enciclica. Innanzitutto il Papa ci aiuta a capire che cosa sia la memoria cristiana. Normalmente si pensa alla memoria come un semplice riferimento al passato, un puro sinonimo della parola ricordo. Ma per il cristiano è molto di più di questo. È fattore costitutivo del nostro io: «La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande» (n. 38).

Cosa significa questo?
La memoria mostra che non possiamo dire io senza dire il tu che ci precede, senza riconoscerci in relazione. Con tutti gli uomini e, soprattutto, con Colui che ci dona istante per istante la vita. Appare così la novità dell’insegnamento di Papa Francesco: ci aiuta a riconoscere il nucleo della vita cristiana – Gesù stesso che si offre a noi attraverso la Chiesa – e il volto vero dell’uomo, costitutivamente teso ad una luce che possa illuminare il suo cammino.

Quale immagine di uomo scaturisce da questa enciclica sulla fede? Lo si può davvero definire un uomo del nostro tempo?
Una lettura attenta dell’enciclica fa emergere l’acuta conoscenza dell’uomo del nostro tempo che Papa Francesco possiede. La sua non è certo una conoscenza che si fermi agli aspetti esteriori o contingenti. Tra l’altro, oggi la rapidità dei cambiamenti è tale che dire “chi sia l’uomo del nostro tempo” appare problematico. Quella del Papa è una conoscenza dei tratti più profondi che caratterizzano l’esperienza dell’uomo contemporaneo. Ne cito due. Il primo è l’esigenza di “cercare”. La citazione di Nietzsche al paragrafo 2 è emblematica: «Se vuoi essere discepolo della verità, allora indaga».

Ma all’uomo di oggi importa ancora della verità?

Lo si può mettere in dubbio solo se la verità viene concepita intellettualisticamente. All’uomo la verità interessa sempre, perché ha bisogno di una ragione certa su cui impostare la propria vita. Un’altra cosa è che poi si confonda, teorizzando che la verità non è la stessa per tutti… Ma alla verità ci tiene, e come! Il secondo tratto esprime bene la sensibilità contemporanea: non si può separare la verità dall’amore. Anzi, l’amore ha nei fatti una funzione di “verifica” della verità che per tutti noi è irrinunciabile. Di questi temi si può parlare con ogni uomo e ogni donna di ogni condizione.

Nei credenti oggi finché la fede concerne l’assenso personale, non ci sono obiezioni di principio; più difficile invece è pensare alla fede nei termini di “bene comune”, come fa l’enciclica nella sua seconda parte. Perché?
Paradossalmente questo è un problema che riguarda in primis “noi credenti”. Spesso siamo proprio noi a ridurre la portata della fede. Non è, in primo luogo, un problema degli altri. Venerdì sono stato in Val d’Aosta a visitare tre campeggi di parrocchie ambrosiane. Ho voluto dire loro soltanto una cosa: finché non si comprende cosa c’entra Gesù con gli affetti, il lavoro e il riposo, cioè con la vita di tutti i giorni, non si diventa maturi. L’ho detto ai ragazzi, ma è una cosa che vale per tutti. La fede, l’enciclica vi insiste in modo molto deciso, illumina la strada verso il compimento di ogni persona, che è sempre in relazione con gli altri. Da qui scaturisce la potenza edificatrice di una civiltà dal volto umano. Basterebbe guardare la realtà senza pregiudizio per riconoscere la forza di bene che la fede cristiana rappresenta ancora oggi nel mondo.

Eminenza, c’è ancora fede in questa Sua città, Milano?
Alla sua domanda occorre rispondere innanzitutto in prima persona. Nessuno, in ultima istanza, ha diritto a rispondere della fede di un altro: ognuno è chiamato in causa pesonalmente. Ciò che posso dire, e lo affermo con grande convinzione, è che a Milano vive un popolo di testimoni del Risorto. È la nostra Chiesa, fiera della sua gloriosa tradizione, instancabile nell’impegno di carità. Certo, come tutte le Chiese europee, è spesso affaticata nel riconoscere il nesso della fede con gli affetti, il lavoro, il riposo, la sofferenza, la giustizia… in una parola con tutti gli ambiti dell’umana esistenza. Che questo popolo sia quotidianamente rigenerato e reso più testimone di Gesù, in modo che possa collaborare all’edificazione alla nuova Milano che già si intravvede. È l’urgenza centrale del prossimo anno pastorale che abbiamo identificato con le parole del Vangelo di Matteo: «Il campo è il mondo» (Mt 13,38). 

Quale città “prepara Dio per noi” (Lumen fidei, IV)?
Senz’altro una città di uomini e di donne liberi, disponibili a dire a tutti chi sono e che cosa sta loro a cuore, aperti ad un riconoscimento reciproco che cerchi il maggior bene possibile per tutti, senza paura dei necessari sacrifici… Ma tutto questo ha bisogno della nostra libertà. Dio per “preparare una città agli uomini”, li vuole interlocutori. Non è una prospettiva affascinante?

(Federico Ferraù)





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