Esiste ancora una poesia popolare o, forse, sarebbe meglio chiedersi, la poesia del 2013, la poesia del nuovo millennio, può ancora ritornare a essere popolare? Con l’aggettivo “popolare” non intendo qui far riferimento a un registro linguistico, per cui i versi siano dialettali o gergali, né tantomeno intendo alludere alla classe sociale da cui proviene la poesia o a cui è destinata, cioè una poesia scritta dal popolo o per il popolo. Voglio chiedere se la poesia di oggi, dopo decenni in cui lei stessa, in gran parte per sua colpa, si è segregata in un ambito specialistico e per addetti ai lavori, come se fosse una turris eburnea, possa essere ancora fruibile ed essere concepita come il grande racconto e l’epopea della civiltà, di un popolo o ancora come espressione della vena affabulatrice umana.
Ha definitivamente vinto la tendenza petrarchesca oppure Dante può oggi ritornare a dire la sua? Nel saggio L’Inferno e il Limbo del 1955 Mario Luzi vedeva il trionfo del Limbo del Petrarca sull’Inferno di Dante. Per Luzi nella tradizione italiana si era affermata la linea eterea, imprecisa, rarefatta, compiaciuta e introspettiva petrarchesca sulla concretezza e sulla potenza narrativa dantesca, aveva trionfato la dimensione elitaria ed esclusiva della poesia del Petrarca su quella popolare di Dante. Non intendo qui lanciare un dibattito letterario per l’estate avulso dall’esperienza. Al contrario le domande sopra poste partono da un’esperienza concretissima che ora voglio raccontare e che testimonia come la popolarità della poesia è una dimensione che deve cercare il poeta.
Il 21 marzo 2013, in occasione della giornata mondiale della poesia, quattro scrittori cesenati (Gianfranco Lauretano, Franco Casadei, Stefano Maldini, Roberta Bertozzi) hanno pensato di proporre alla città di Cesena il lancio di un’iniziativa, denominata La poesia nelle case. Hanno contattato personalmente famiglie e amici, insegnanti ed educatori, responsabili di associazioni culturali e di volontariato, di consigli di quartiere e di gruppi parrocchiali, si sono resi disponibili, a due a due, ad andare a leggere poesie loro e di altri autori di riferimento della loro personale produzione poetica.
Ed è successo l’impensabile. Nel giro dei tre mesi della primavera 2013 sono stati accolti presso case private, sedi di quartieri o di associazioni, aie e cortili e perfino nella cantina dei vinai sulle colline romagnole, fra le botti e le damigiane di sangiovese. Erano presenti da un minimo di una ventina di persone fino a un centinaio. Quasi sempre con ascoltatori di estrazione socio-culturale diversissima, dal docente di scuola alla casalinga, dal pensionato all’artigiano, dal giovanotto all’ottantenne, che aveva frequentato magari solo la scuola elementare.
«Questo – afferma Franco Casadei – ci ha costretti a inventarci il modo di porci e di proporci. Non certo a diventare venditori nazional-popolari di poesia, ma certamente a tenere conto dell’interlocutore, a scegliere testi adeguati (nostri o delle antiche reminiscenze scolastiche di tanti dei presenti), a fare brevi introduzioni sul linguaggio poetico, stando all’esperienza, senza svolazzi intellettualistici. Insomma, un lavoro di educazione al linguaggio poetico. Si dice sempre, fra noi, che la poesia non va spiegata, che occorre lasciare libero l’ascoltatore di interpretare a modo suo i testi proposti. Io credo che non bisogna essere ideologici e che non sia un vulnus alla poesia se in talune circostanze si dà un piccolo aiuto a chi ha il coraggio di venirci ad ascoltare. Noi che proponiamo poesia, certo, facciamo un regalo agli altri, ma anche chi viene ad ascoltarci fa un regalo a noi. Credo che questo non vada mai dimenticato».
Persone semplici, che spesso neppure sanno cosa sia la poesia, e persone colte, commosse e grate per qualcosa che hanno sentito vibrare dentro, hanno partecipato insieme a questi incontri. Diceva uno: «Io non so cosa sia la poesia, ma quando la sento, la riconosco». «Questa iniziativa è stata una vera festa della poesia, liberata dal nascondimento; un’iniziativa che, non mi risulta, si faccia da altre parti. E, anche questa è una novità: la gente ha comprato tanti libri, come mai avevo visto prima» (Franco Casadei).
Ora, già si stanno moltiplicando le richieste per l’estate e per l’autunno, grande è stata la soddisfazione di vedere la gente partecipe, curiosa, attenta e piena di stupore e di domande. Provocatoria e interessante è questa esperienza in un contesto culturale in cui sembra essersi avverato quanto aveva profetizzato Leopardi due secoli fa sullo Zibaldone a proposito della poesia. L’acculturamento di massa avrebbe creato una letteratura commerciale per tutti e la poesia sarebbe divenuta sempre più lettura per pochi. Ma è proprio vero che la poesia, quella grande, quella con la P maiuscola, sia solo per pochi?
Racconta Franco Sacchetti nel Trecentonovelle che Dante un giorno si arrabbia con un fabbro e gli storpia gli arnesi del mestiere. Quando il fabbro gli chiede ragione di ciò, Dante risponde che anche il fabbro ha storpiato la sua opera declamandola non alla lettera e, quindi, modificandone le parole. Al di là del divertente racconto, la vicenda testimonia della popolarità che l’opera di Dante conseguì fin da subito, tanto che il popolo amava imparare a memoria i versi del capolavoro. LaCommedia era conosciuta da tutti, interessava tutti. Per caso, le opere di Shakespeare hanno perso la loro capacità di comunicare all’uomo di oggi, a distanza di quattrocento anni? Al contrario, sorprende il fatto che i suoi drammi siano fra i più rappresentati sul palcoscenico teatrale e che vengano riletti, continuamente sceneggiati per versioni cinematografiche, certo a volte con vistose e sgradevoli storpiature.
La grande poesia è immortale. Se vogliamo celebrare davvero la poesia, dobbiamo frequentarla, leggerla, farla diventare nostra, portarla dietro con noi, assaporarne i versi a memoria, scoprire che i grandi poeti sono nostri amici e contemporanei (come scrive Machiavelli nella bellissima lettera al Vettori del 10 dicembre 1513), perché sanno esprimere quello che anche noi viviamo e proviamo, le nostre stesse ansie e le nostre aspirazioni, l’ardore e la paura del vivere, l’horror vacui e il desiderio dell’assoluto.
L’atto poetico ha a che fare con l’uso della parola. L’ingegno poetico usa una parola al posto di un’altra e muove il lettore o l’ascoltatore alla scoperta della verità e della storia che è nascosta sotto quel termine. La poesia diventa così scoperta, impone un processo conoscitivo alla ricerca della verità nascosta e, a un tempo, rivelata. Il termine “parola” deriva da “parabola”, che a sua volta proviene da un verbo greco che significa “mettere a confronto, paragonare”. La parabola è, infatti, un genere letterario che consiste nel racconto di un fatto o di una storia per comunicare un concetto più complesso. La parola è, quindi, in sé e per sé già un racconto, una storia, la rievocazione di un’avventura, di una vicenda umana, che nasconde in sé l’affermazione di un significato e di un senso.
Per questo la poesia non può morire, proprio perché coincide con quest’uso sapiente della parola che è, in un certo senso, espressione stessa dell’uomo, del suo ingegno, della sua ricerca della verità. La poesia è testimonianza di un cammino dell’uomo che ha preso coscienza di sé nel tempo della storia. Per questo, ancora, grande è la responsabilità del poeta. «A contatto con le opere d’arte, l’umanità di tutti i tempi – anche quella di oggi – aspetta di essere illuminata sul proprio cammino e sul proprio destino» (“Lettera agli artisti” del 1999 di Papa Giovanni Paolo II).
Sta al poeta uscire dal mondo esclusivo che spesso ha costruito e coltivato insieme ad altri compagni per parlare al cuore di tutti. La virtù somma, sempre, in ogni atto di scrittura, è la capacità di comunicare e di parlare al cuore del lettore. I latini la chiamavano perspicuitas, ovvero «la chiarezza espositiva di un discorso».