«Sì, il mondo fa paura: monta verso un nuovo disastro come un latte con troppo fuoco. La politica, diventando un fine anziché un mezzo, ha rovinato gli uomini. Idee, idee, idee (astrazioni), e niente cuore. (Chi può nominarlo, e usarlo, il cuore?)». Corre l’anno 1956, il 27 di novembre, e quest’accenno – riferito all’aggravarsi della crisi di Suez e al contemporaneo arresto del primo ministro ungherese Nagy – già basta a mostrare la statura del dialogo epistolare tra Giorgio Caproni e Giuseppe De Robertis (Lettere 1952-1963, a cura di Anna Marra, Bulzoni, Roma 2012, 14 euro), protagonisti di altissima fiamma del nostro Novecento letterario. Ma che cos’è che ha unito uno dei più grandi critici del secolo scorso, pietra di paragone sia nel campo della critica militante che in quello dell’accademia, al poeta ligure che di quel medesimo Novecento è una delle colonne portanti?
Facile, si dirà: la letteratura, la poesia, gli interessi comuni. Tutto vero e tutto impreciso, insufficiente. Perché se è vero che galeotta fu la recensione con cui nel 1952 De Robertis loda le Stanze della funicolare – e che segna l’abbrivio della corrispondenza tra i due – c’è tuttavia una profondità, una sfumatura che emerge leggendo, che impedisce di derubricare l’amicizia tra i due a una solita amicizia letteraria. Questione di uomini, senz’altro. E di statura. Sono infatti diversi, ormai, gli epistolari di Caproni pubblicati e in ognuno di essi ciò che primamente rifulge è la nobiltà di un uomo vero, che cerca e brama il cuore di chi ha davanti in ogni cartolina, in ogni semplice biglietto di saluto.
Così non stupisce che Caproni sia certamente lusingato dall’apprezzamento che fa De Robertis del proprio mestiere, ma che molto di più lo sia dall’attenzione offerta a quel mestiere, dalla comprensione del perché egli faccia quel mestiere in quel modo e non in un altro: «Mi ha fatto molto piacere il tuo riferimento al Carducci […] Tu solo te ne sei accorto, come ti sei accorto della funzione (brutta parola, scusa) che hanno in me le rime (Giorgio Caproni a Giuseppe De Robertis, 13 agosto 1959)».
Un’attenzione che ha sì la sua radice e il suo termine in un’umanità profonda e coltivata, ma che proprio perciò si riverbera necessariamente in un diverso modo di lavorare, in una concezione della propria opera come servizio, come reale osservazione delle cose: «E imparino i criticozzi occhialuti e “scientifici” che con tutto il loro laboratorio e le loro filologiche “analisi” (atte a trovar l’albumina, ma non la poesia) hanno tutta l’aria di dire al lettore: vedi quante ne so, e come sono intelligente e colto, senza accorgersi di parlare di tutto fuor che del libro che interessa al lettore (Ibidem)».
Lo svolgersi dell’epistolario mostra bene l’insorgere e il rinsaldarsi di questo desiderio di verità profonda e di partecipazione alla vita dell’altro, con l’ingresso – man mano che il tempo passa e la vita si intreccia – di motivi più personali. Così, tra una salute che perde colpi e un’«allegria […] che sta cedendo alla malinconia o, peggio, all’assuefazione (Giorgio Caproni a Giuseppe De Robertis, 7 gennaio 1960)», ecco che la poesia stessa, quella poesia «che entrambi abbiamo amato più di ogni altra cosa terrena (Ibidem)», segna il passo, mostra eliotianamente la propria insufficienza di fronte a un bisogno che si svela sopra ogni altro quello di sentirsi, di guardarsi ed essere guardati: «Scribacchio tanto, che mi son venuto a noia. M’è rimasto intatto il gusto di parlare; e per parlare bisogna essere in due, vicini. Credi a queste verità? (Giuseppe De Robertis a Giorgio Caproni, 2 gennaio 1958)».
Un bisogno che in uomini del genere impressiona per il suo tradursi in un’attesa inesausta, come quella del venditore di almanacchi leopardiano, e che si mostra una volta di più nell’ultimo scambio di lettere, dove un De Robertis a pochi mesi dall’ultima stazione ancora si scopre ad aspettare e ad augurare un dono sconosciuto ma atteso: «Sono vecchio e stanco e inquieto; perché non mi riesce di lavorare come una volta, ai miei bei dì. Tu mi dai ora coraggio. Non ti dico altro. Solo mi auguro e ti auguro che l’inizio frutti ciò che io m’aspetto. Credimi: ne ho bisogno (Giuseppe De Robertis a Giorgio Caproni, 4 febbraio 1963)».