Charles A. Kupchan, politologo americano e professore alla Georgetown University, già direttore per gli Affari Europei del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti durante la prima amministrazione Clinton, in un suo recente articolo – “Guardando ad ovest in un mondo di nessuno” – pubblicato su Aspenia, ha analizzato l’attuale crisi dell’Occidente.
In sintesi, Kupchan evidenzia che oggi l’Europa e gli Stati Uniti – che per oltre due secoli hanno dominato, prima singolarmente e poi insieme, il mondo conosciuto – con la fine della Guerra Fredda e l’avvento della globalizzazione stanno attualmente perdendo influenza: la concentrazione del potere globale e la sua distribuzione si sta infatti modificando. Basti ricordare che solo trent’anni fa i Paesi occidentali producevano oltre i due terzi del Pil mondiale, oggi siamo alla metà con proiezioni che indicano un ulteriore e drastico ridimensionamento nei prossimi anni. Ancora, i nuovi Paesi che si affacciano sulla scena mondiale – i Brics – hanno un modello di sviluppo economico e politico completamente diverso da quello occidentale; basti pensare, ad esempio, al capitalismo di stato cinese o russo. Contemporaneamente, invece, stiamo assistendo al declino del modello di welfare dei Paesi occidentali, poiché non più sostenibile. Da qui una crisi della governabilità ed una involuzione del modello democratico. Le democrazie, infatti, sono molto efficaci nella reattività al ciclo economico positivo, per la distribuzione dei suoi effetti; diventano immobili e divise nell’affrontare, invece, la distribuzione dei sacrifici determinati dal ciclo economico recessivo.
Kupchan rileva, di conseguenza, che “nello stesso momento in cui – integrandosi in un mondo globalizzato – i Paesi più democratici perdono la capacità di controllo sulla loro società, quelli illiberali come la Cina mantengono invece una stretta deliberata sui loro sistemi, attraverso la centralizzazione dei processi decisionali, la censura dei media e la regolamentazione statale dei mercati e dei flussi finanziari”. E quindi ritiene determinante una risposta moderna da parte dell’Occidente per riacquistare un dinamismo economico e rivitalizzare le istituzioni democratiche secondo tre direttrici. In primo luogo si devono perseguire strategie di rinnovamento economico che vadano oltre le solite ricette, quali progetti strategici di lungo respiro e massicci investimenti nell’occupazione, nelle infrastrutture, nell’istruzione, nella ricerca. In secondo luogo sarebbe necessario il ricorso a un nuovo “populismo” progressista; in altri termini le classi dirigenti dovrebbero rafforzare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, poiché – e questa è la terza direttrice – è fondamentale che le Società non rischino di ripiegare su se stesse.
Questa ultima possibilità, a mio avviso, risulta problematica e di difficile realizzazione in quanto, invece, si sta manifestando, in particolar modo in Europa, l’effetto irreversibile dell’invecchiamento della popolazione. Sarà un fenomeno rapido − di non oltre due decenni − e significativo. Secondo il politologo francese Dominique Reynié, l’invecchiamento demografico favorisce l’affermazione di una cultura conservatrice, caratterizzata dall’avversione al rischio, da una resistenza al cambiamento e alla diversità. Nel prossimo futuro la debole crescita economica europea e la crisi delle finanze pubbliche produrranno obbligatoriamente politiche di riduzione della spesa pubblica e quindi il ridimensionamento del Welfare, favorendo così reazioni di carattere populista e possibili tensioni sociali.
In Italia ne possiamo già osservare i primi segnali; basti ricordare la vicenda dell’Ilva di Taranto, della Tav in Val di Susa o dell’avvento di un nuovo soggetto politico quale il Movimento 5 Stelle.
Reynié osserva come in Europa stia germogliando un populismo che si fonda su due paure: la perdita del tenore di vita, di natura patrimoniale e la perdita dello stile di vita di matrice culturale. Paure queste, socialmente trasversali, e quindi interclassiste, che proprio per questo possono evolversi in un collante unitario e identitario. Sarà questo, quel “populismo progressista” auspicato da Kupchan? È difficile dirlo, sicuramente chi ha votato nelle ultime elezioni politiche italiane il Movimento Cinque Stelle è convinto di essere un progressista. La rivoluzione informatica e gli effetti socio-economici della tecnologia digitale sui canali di informazione e sui media in realtà stanno determinando un’omologazione della forma mentis che, in politica, si traduce in una ideologia democratica-progressista-populista. Ancora, il ricorso al referendum di iniziativa popolare o il ricorso ai social network per l’espressione del consenso libero, autentico ed immediato del cittadino, stanno delegittimando la democrazia rappresentativa. È questa, infatti, una probabile strategia per riaffermare la supremazia dell’Occidente. Kupchan, ancora ricorda la necessità che gli Stati occidentali riprendano la capacità del controllo sociale. Segnalerei come spunto di riflessione una tematica − a mio giudizio attuale e futuribile – necessariamente da approfondire. Si tratta dello sviluppo delle neuroscienze e delle nuove frontiere dello studio del cervello condizionato dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Basti ricordare le diverse anomalie e distonie nella teoria del mercato efficiente che hanno rivelato, invece, comportamenti poco razionali, spiegabili con la psicologia comportamentale, definita anche “behavioral finance”, poi evoluta nella teoria del prospetto.
La teoria poggia sulla constatazione che gli individui sembrano poter valutare ogni possibile esito di una decisione sulla base di un punto riferimento o dello status quo. Ne deriva quindi che, secondo lo status quo, la decisione cambia. Gli individui non agiscono sempre razionalmente ma in base alle esperienze passate, alle loro credenze, a come vengono loro presentate le informazioni, alla loro posizione finanziaria alla completezza o all’incompletezza informativa. Ancora, l’evoluzione della tecnologia dell’imaging − Risonanza Magnetica o la Fmrs − consente ora di avere anche come obiettivo l’individuazione dei meccanismi cerebrali responsabili delle violazioni o delle conferme della teoria razionale.
È così nata la neuroscienza sperimentale, cioè lo studio sistematico, su basi neurologiche, dei principali meccanismi cognitivi fino ad oggi postulati su basi puramente comportamentali. Di conseguenza neuroscienze e scienze comportamentali e cognitive si muovono parallelamente integrandosi a vicenda. In sintesi la neurologia sta proseguendo nell’analisi del cervello finalizzata alla comprensione più completa del pensiero e del comportamento umano. Si riesce, quindi oggi, ad osservare, nell’attività comportamentale psicologica la componente “affettiva-irrazionale” e automatica e quella “cognitiva-controllante”.
Non deve sfuggire la notizia degli ultimi giorni, la dichiarazione del presidente Obama in merito ai notevoli investimenti stanziati dal Governo statunitense nella ricerca neurologica. Certo, questi investimenti a scopi medici – scientifici, possono avere anche ricadute nelle metodologie di condizionamento del cervello e del suo comportamento. Ecco quindi, che si impone una riflessione etica: la necessità di evitare l’utilizzo dei risultati ottenuti per condizionare e manipolare l’opinione ed il consenso pubblico, palesando una democrazia nella rete, ma in realtà, costruendo un Grande Fratello, quale descritto da G. Orwell.
Il rischio quindi è di un controllo del cervello e della persona e quindi della sua autonomia e libertà. Controllo che mediante i mezzi di comunicazione quali internet e i suoi social network non aiuta alla riflessione, ma conduce semplicemente ad un consenso positivo o negativo del “mi piace”. Interessante scoprire che la principale società italiana produttrice di carte da gioco è in stato di decozione fallimentare. Nessuno, ora, gioca a carte. Se riflettiamo, il gioco delle carte ha comunque alla base una stimolo razionale matematico del cervello.
Il controllo dei mezzi di comunicazione, della rete internet, correlato al controllo dei loro contenuti produce un potere implicito. L’immagine, lo slogan, “il tweet” (troppa informazione rende disinformati e quindi i messaggi di tweeter devono essere brevi) possono condizionare il pensiero “in automatico”, sottraendo l’elaborazione del processo cognitivo alla razionalità, alla riflessione, all’etica. E questo è un rischio per le attuali e future generazioni, in quanto pochi controlleranno i molti.
Che sia questa l’ultima frontiera dell’Occidente per vincere la sfida per il potere e la supremazia mondiale?