1920, Europa, morte. Il grande inganno della guerra igienica si è da poco concluso, nei suoi fatti di sangue e di carni straziate, almeno. Non meno straziate le anime, non meno sanguinanti: quelle di chi è rimasto, quelle di chi è tornato a un mondo non più suo. Quelle di chi — pur mai partito — tanta parte ebbe nella tragedia con la sua retorica di morte intorno a una gloria astratta.
Non meno straziate le anime e confuse, ammirate affascinate dal «mai più», dal miraggio di una soluzione definitiva al male del vivere, del farsi male vivendo. Anime in cerca, al fondo di una guerra inaudita, di un sistema così perfetto che non richieda di essere buoni. Così la Rivoluzione bolscevica, così il biennio rosso in cui si convoglia la rabbia e la delusione di troppi; così la Weimar autocensoria che tredici anni più tardi si consegnerà tristemente alle promesse di un onesto imbianchino.
Straziate le anime degli uomini e straziata l’anima di Pound, del non ancora «vecchio Ez» che proprio in quel 1920 pubblica Hugh Selwyn Mauberley, un affresco del grande inganno della guerra ancora oggi tra i più lucidi ed esatti.
Dove nasce la guerra, si chiede Pound? Ma la sua indagine è visiva, non teoretica: non verbalizza, il vecchio Ez, presenta; presenta quel che il suo occhio di poeta capta e assimila, restituendolo al mondo in una forma più esatta. Eccolo allora inquadrare in una sequenza di poesie la storia di Mauberley, uomo avvinto dalla bellezza che, dopo essersi speso «per tre anni […]/ a risuscitare l’arte/ morta della poesia» (HSM, i, 1-3), muore, tritato come tanti da una guerra che non ha protagonisti ma solo comparse: «Non toccato dal “corso degli eventi”/ Passò dalla memoria degli uomini, nell’an trentiesme/ De son eage; un caso, il suo,/ Che nulla aggiunge al diadema delle Muse» (HSM, i, 17-20).
Età convulsa, il primo Novecento, di macchine e accelerazioni, di un Dio che finalmente recede, si lascia accantonare. Età di tempi stretti, senza più ritmo né armonia; di stampi anonimi, di maschere, di figure senza tratti personali: «L’età domandava un’immagine/ Della sua smorfia convulsa/ Qualcosa da teatro moderno,/ Non, certo, un’attica grazia./ […]/ L'”età domandava” uno stampo in argilla,/ Prodotto alla svelta/ Un cinema in prosa, non certo l’alabastro/ o la “scultura” della rima» (HSM, ii, 1-4; 9-12).
È l’usura, quell’impossessamento delle cose per cui l’uomo sovverte il mezzo con il fine, schiavo del fare e del «fare in fretta», come dirà più tardi il xlv dei Cantos. Ed è qui, in questo ritrarsi dell’uomo da sé, dal desiderio che ogni cosa sia bella e perciò santa, che per Pound si annida il seme della guerra.
Lo vediamo nella terza sequenza del poemetto, dove è disegnata la discesa nel cheap, l’economicismo spinto che confonde le cose con il loro scopo: «La vestaglia da tè rosatea, eccetera/ soppianta la seta di Coo,/ La pianola rimpiazza/ Il barbito di Saffo» (HSM, iii, 1-4). E se qualcuno si chiedesse cosa c’entri la caduta del gusto — del desiderio del bello — con il dramma di una politica miope e con la guerra, Pound prontamente risponde con una delle sue magnifiche compressioni concettuali: «Ogni cosa scorre/ Dice il saggio Eraclito/ Ma questa robetta da fiera/ Sopravvivrà ai nostri giorni./ […]/ Tutti, per la legge, uguali./ Da Pisistrato liberati,/ Scegliamo servi o castrati/ Per farci governare./ O luminoso Apollo,/ […]/ Su che dio, che uomo, che eroe/ poserò il mio diadema di latta?» (HSM, iii, 9-12; 21-25; 26-28).
Perché il desiderio batte e non si arresta, nonostante noi. E se non c’è un condottiero che indossi un diadema di diaspro, ci accontenteremo di un castrato con un diadema di latta. Purché ci illuda di vivere, purché ci racconti una storiella che ci sembri dare un corpo di carne alla nostra vita da stampi d’argilla:
Così combatterono, in ogni caso,
e alcuni credendoci,
pro domo, in ogni caso…
Alcuni pronti all’arma,
alcuni per avventura,
alcuni per paura della viltà,
alcuni per paura del biasimo,
alcuni per amore del massacro, immaginato,
imparato più tardi…
alcuni impauriti, imparando l’amore del massacro.
Morirono alcuni, pro patria,
non «dulce», non «et decor»…
camminando con gli occhi affondati nell’inferno
credendo alle menzogne di vecchi uomini, poi non credendo
tornarono a casa, a una menzogna,
a casa a molti inganni,
a vecchie menzogne e a una nuova infamia:
usura antica d’anni e di scorza,
e bugiardi nei posti di potere.
(Hugh Selwyn Mauberley, iv, 1-19)
Combatterono, allora, persino credendoci. Perché la vita chiede di essere, il sangue chiede di scorrere e nessuno, in nessun luogo del mondo, è fatto per essere uno stampo d’argilla. Così si può cadere, si può cadere credendoci — volendoci credere — nelle menzogne di uomini vecchi: ché non è tanto il sangue sparso né, per nulla, l’ardore sparso a ferire Pound, ma il loro spreco, l’usurpazione; l’asservimento all’idolo senza tempo e senza fiato del potere.
Ne è morta una miriade,
E tra loro alcuni dei migliori,
Per una vecchia troia sdentata,
Per una civiltà rappezzata.
Fascino di una bella bocca sorridente,
Sguardi svelti finiti sotto le palpebre della terra.
Per due palate di statue in pezzi,
Per qualche migliaio di libri sfasciati.
(Hugh Selwyn Mauberley, v)
(Traduzioni a cura dell’autore)