Oggi le neuroscienze, oltre a costituire un importante campo di ricerca, rappresentano anche una moda culturale. Spopolano nei convegni e sono entrate di diritto nelle terze pagine dei quotidiani, là dove prima c’erano la letteratura e la filosofia.
Conoscere l’attività celebrale in che modo contribuisce a comprendere meglio la natura umana? La spiritualità e le scelte morali sono determinate in qualche modo dalla fisiologia umana? Qui le strade si dividono, se è vero che alcune risposte fornite sul terreno delle neuroscienze portano a destituire di fondamento molte parole della tradizione culturale occidentale, come “anima”, “natura”, “morale”. Ilsussidiario.net ne ha parlato con Juan José Sanguineti, filosofo, docente di antropologia e neuroscienze nell’Issr all’Apollinare (Pontificia Università della Santa Croce, Roma).
Professore, come possono convivere nell’uomo del XXI secolo la dimensione scientifica e quella spirituale, che sembrano così contrastanti?
Sia per Giovanni Paolo II sia per Benedetto XVI la questione dell’integrazione tra il mondo religioso, teologico e di fede e il mondo scientifico era fondamentale, ma lo è anche per papa Francesco (nel 2008 all’Università Cattolica di Buenos Aires tenni una conferenza sulle neuroscienze e l’allora Arcivescovo della capitale era tra i presenti…). Queste due dimensioni, spirituale e fisica, possono sembrare contrastanti perché sono diverse e alcuni non riescono ad integrarle bene e le vivono come una specie di “schizofrenia” intellettuale…
Invece?
Invece nella Chiesa esiste una lunghissima tradizione di unione tra la fede biblica e religiosa in Cristo e il Logos, che diventa il logos filosofico e scientifico: si tratta di venti secoli di integrazione. Quindi non è così una novità, ma c’è la necessità costante di ricordarlo e di saper integrare le due visioni.
Oggi, con la crisi dei fondamenti della scienza e i limiti e le difficoltà che incontra la tecnologia, e la crisi della fede, la diffusione di una cultura secolarizzata e di una mentalità post-moderna atea o agnostica, la riflessione su questo tema è ancora attuale?
Proprio perché c’è una crisi della scienza e della tecnologia, e anche di fede, la riflessione su questo tema non è soltanto attuale ma urgente. In altri tempi, senza queste “crisi”, si davano per scontate molte cose. Invece oggi è importante tornare a riflettere sul senso della scienza e della tecnica e sulla capacità che ha la fede cristiana di illuminare questi ambiti della razionalità. Il problema è piuttosto dare un senso a tutte quelle scoperte delle scienze sperimentali, da collegare con la filosofia, e di dare pure un senso alla tecnologia, che rischia di essere fine a se stessa e quindi di non tenere conto dei fini naturali umani, sociali e personali.
La tecnologia è strumentale?
Certamente: non può essere un fine assoluto, deve servire alla persona e alla società. Per quanto riguarda la secolarizzazione, il beato Alvaro del Portillo, recentemente portato agli altari, era solito distinguere una forma positiva e una negativa di secolarizzazione. La prima consiste nel fatto che, se nel medioevo la scienza era molto subordinata alla teologia, poi a partire dal Rinascimento si è aperto l’ambito di autonomia, del tutto legittima, delle diverse scienze secolari. La secolarizzazione negativa sarebbe invece legare l’autonomia e l’indipendenza dalle singole scienze al rifiuto di Dio, della trascendenza e di ogni rapporto con il senso profondo dell’uomo che si manifesta nella sua religiosità.
Quali novità ha portato la filosofia della mente alla riflessione filosofica e alla nuova ricerca sulle neuroscienze?
La filosofia della mente è ormai da diversi anni in primo piano e pone una serie di tematiche al centro dell’attenzione: oltre alla mente, anche l’io, la cognizione, il problema dell’intelligenza artificiale, eccetera. Per quanto riguarda le neuroscienze e la filosofia, la questione si gioca molto in questi termini: riduzionismo oppure inclusione in un’antropologia filosofica. Riduzionismo nel senso di considerare la neuroscienza come una pura scienza empirica e soltanto materiale, che non apre pertanto l’orizzonte alla vita spirituale, ma rimane chiusa in se stessa, quasi neurofisiologia, o invece includere la neuroscienza, rispettandone l’autonomia, in una visione antropologica. A questo scopo è necessario elaborare una buona ontologia, a mio parere basata sulle “tre menti”: la mente personale dell’uomo, la mente animale (perché noi abbiamo molto in comune con gli animali) e la “mente” artificiale — in senso analogico — ossia la mente tecnologica dei sistemi intelligenti, che richiama molto l’intelligenza umana.
Anima, spirito, coscienza, psiche, mente, cervello: per non fare confusioni, come si distinguono e come dovremmo parlarne in modo corretto?
A queste grandi tematiche della neuroscienza (o neurofilosofia), aggiungerei anche quelle di “io”, di “persona” e anche di “corpo”, perché oggi si insiste molto sul fatto che il cervello bisogna considerarlo unito al corpo umano e non isolatamente, come, allo stesso modo, la mente umana bisogna vederla unita alla persona e non separatamente. Pertanto c’è la persona e il suo corpo, poi nella persona c’è l’io e una dimensione che si può chiamare anima, spirito, psiche. Lo spirito può indicare le funzioni più alte, la psiche invece indica piuttosto la parte animatrice delle funzioni biologiche o sensitive.
Lei parla anche di “corpo elevato”, che significa?
Si tratta di una nozione interessante che viene dalla fenomenologia. Una stessa realtà acquista un’altra dimensione quando è per così dire “informata” da un livello gerarchico superiore (non è la stessa la corporeità di una pietra, o di un gatto o di una persona). Quindi la nozione stessa di corpo cambia (nella lingua tedesca si distingue tra corpo vivente, Leib, e corpo come volume, tridimensionale, Körper). Così, quando si parla di cervello animale e di cervello personale, bisogna considerare che il cervello umano fa parte di un corpo più “alto'” del corpo di un animale. Questo significa evitare l’univocità e lavorare con un’analogia semantica importante.
Quali sono gli elementi o i contributi più rilevanti che il nuovo paradigma delle neuroscienze può dare all’antropologia? E a suo parere, quali sono i problemi da risolvere o le questioni più importanti da approfondire nel prossimo futuro?
I contributi più rilevanti sono tantissimi. Ad esempio, l’importanza della dimensione sociale dell’uomo ossia dell’empatia, rilevata dagli studi di neuroscienze, e non solo per motivo dei neuroni-specchio, un fatto ormai molto risaputo. Un altro punto è la questione dell’integrazione: si vede sempre più chiaro che il sistema nervoso è un sistema integrativo dove le cose più piccole, come i diversi sensi e le diverse “agenzie”, di tipo livello emotivo basso o medio o alto, sono integrate in modo sistemico e gerarchico. Nel cervello tutto è integrato, e quello che non è integrato funziona male, perché è separato e isolato, cosa che può in alcuni casi anche portare a conseguenze patologiche. Un altro tema è il ruolo delle emozioni nella coscienza e anche nel pensiero. Il rapporto tra passionalità e razionalità è interessante e molto ricco per l’incidenza che hanno le emozioni nel pensiero razionale e viceversa. Infine, a mio parere, è importante approfondire la complessità e il cervello…
Perché?
È indubbio che il cervello è l’organo più complesso dell’universo: una galassia è quasi elementare nei confronti del cervello umano, data la quantità dei livelli di connessioni interne, il rapporto con gli altri cervelli e con l’ambiente esterno. Si tratta insomma di un sistema con sottosistemi e via dicendo. Ci sono alcuni progetti che tentano di studiarlo, come l’Human Brain Project — che mira ad elaborare una specie di super-computer che possa ricostruire e simulare il cervello dal punto di vista quantitativo — o il Brain Activity Map, sorto con lo scopo di “mappare” tutto il cervello, come era stato il progetto Genoma per il Dna di anni fa. Saranno progetti certamente utili, ma il mio cervello sarà sempre diverso da quello del mio vicino: ogni persona con una sua storia ha il suo proprio cervello, molto diverso, e quindi i modelli e le soluzioni dei problemi sono necessariamente personali. Questo non accade con problemi tecnici o con questioni di tipo fisico o chimico. L’uomo è complesso e questa complessità è evidente appunto nel cervello. Con metodi quantitativi non si arriva a dominare e a controllare il cervello umano. Bisogna utilizzare altri metodi di tipo qualitativo e fenomenologico, senza negare che la parte quantitativa sia utile, ma il suo apporto è, in questo caso almeno, molto parziale.
In che modo le neuroscienze possono “incidere” nella concezione cristiana dell’uomo? Possono modificare la visione tradizionale di uomo come corpo materiale e anima spirituale?
Tutti oggi sono d’accordo sul fatto che le neuroscienze stanno dando un contributo importante per acquisire una concezione dell’uomo meno “spiritualistica”, dove si vede l’importanza del corpo umano e del sistema nervoso anche per capire in parte comportamenti religiosi e morali. Questo non necessariamente ha una ricaduta materialistica, semplicemente ci aiuta a comprendere meglio l’uomo nella sua integralità.
Approfondendo la questione, si deve dire che però la visione dualistica è legata ad un certo tipo di spiritualismo vicino al razionalismo, dove il corpo era tralasciato o molto separato dalla mente. Mentre invece, se andiamo ad una tradizione cristiana biblica e anche medioevale — si pensi ad Avicenna, ad Alberto Magno e a Tommaso d’Aquino, alle prime università del tardo medioevo e all’inizio del rinascimento, come le università di Bologna, La Sapienza di Roma, di Salerno — la ricerca sul cervello era molto importante, anche se basata su una vecchia fisica.
Quindi non è completamente vero che la visione cristiana sia stata sempre spiritualistica.
No, infatti. E’ a partire dai secoli del razionalismo che c’è stata una spaccatura: da una parte sono nate le scienze empiriche e dall’altra tutto quello che era spiritualità e moralità ha seguito una via troppo spiritualistica e si è perso il legame con un naturalismo autentico. Ci sono stati due momenti storici importanti per il cristianesimo e per il suo rapporto con le scienze naturali e con un naturalismo corretto: dapprima l’incontro del cristianesimo sin dalla nascita con il logos greco e il mondo scientifico; in secondo luogo, il rinascimento, preceduto da due o tre secoli di fermento intellettuale, quando grazie alla nuova scienza naturale nascono la nuova biologia e la nuova neuroscienza. Non possiamo pensare che la neuroscienza presenti una sfida alla visione cristiana come se fosse una novità assoluta o possa essere in qualche modo una minaccia. Al contrario, è un’ottima opportunità per conoscere meglio la natura umana.