Di recente ho avuto occasione di intervenire alla presentazione di un libro su Giacomo Leopardi nell’aula magna del comune di Recanati. Finita la presentazione mi sono fermato ad ammirare la bellezza dell’edificio e a leggere le iscrizioni che vi si trovano, a commemorazione del primo centenario della nascita del poeta (1898) e dell’intervento di Giosuè Carducci in occasione della suddetta ricorrenza.
Mi ha colpito trovare nelle iscrizioni un denominatore comune, quasi una sorta di leitmotiv, usato per descrivere la produzione del genio di Recanati: il dolore e la patria. “A Giacomo Leopardi che pur tra gli immortali canti del dolore esaltò la grandezza e la speranza della patria“, sentenzia la prima iscrizione, mentre la seconda caratterizza il poeta come “unico di genio e di sventure cha dalla città nativa cantò in versi immortali la patria e il dolore umano”.
Quello stesso giorno, tornando a casa, mi sono intrattenuto a leggere il 48° Rapporto Censis sulla situazione sociale dell’Italia. I nomi dolore e patria mi sono di nuovo balzati agli occhi. Parlando della società italiana, le considerazioni generali di questo Rapporto attaccano in questo modo: “Senza ordine sistemico, i singoli soggetti sono a disagio, si sentono abbandonati a se stessi, in una obbligata solitudine: vale per il singolo imprenditore come per la singola famiglia”. La domanda ci viene subito alla mente: come si fa a uscire da questo impasse? Ma più lealmente, come potrebbe anche Leopardi uscire da quel dolore cristallizzato in uno “scetticismo cosmico”?
“O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi?” (Leopardi, A Silvia). Chi potrebbe sfuggire questa domanda radicale, davanti ai dolori della vita o alla situazione del Paese, se non con una sorte di dimenticanza superficiale o di atteggiamento spensierato?
La ricorrenza del Natale ci mette davanti agli occhi, in modo testardo, un’altra risposta. Qualcosa è accaduto al di là di quello che potremmo pensare o progettare e in certo modo anche al di là di quello che potremmo immaginare e desiderare. Quel tu che il poeta di Recanati cantò in modo ammirevole, il cui volto soltanto da lontano intuì (“Cara beltà che amore/ Lunge m’inspiri o nascondendo il viso”, cf. Alla sua donna) si è rivestito di “sensibil forma”, si è fatto carne umana ed è venuto ad abitare in mezzo a noi.
Di fatto, è soltanto questo lieto annuncio, questo sorprendente avvenimento, che ci fa tornare ai versi di Leopardi per leggere, come in una profezia, l’attesa che caratterizza il cuore di ogni persona e alla quale il bambino che la Madonna porta in braccio è venuto a colmare, qual angelica sembianza:
Da che ti vidi pria,
Di qual mia seria cura ultimo obbietto
Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
Ch’io di te non pensassi? ai sogni miei
La tua sovrana imago
Quante volte mancò? Bella qual sogno,
Angelica sembianza,
Nella terrena stanza,
Nell’alte vie dell’universo intero,
Che chiedo io mai, che spero
Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?
(Il pensiero dominante)
Come i pastori la notte di Natale, come Giovanni e Andrea, i primi che incontrarono Gesù sulla riva del Giordano, anche noi possiamo guardare con simpatia la nostalgia ultima che ci caratterizza, l’attesa che sta dietro le nostre difficoltà, perché sorprendiamo davanti ai nostri occhi, fattosi carne, l'”ultimo obietto” di ogni nostra “seria cura”.
E allora tutto può ripartire, come si vede in modo paradigmatico in quelli che hanno incontrato e seguito Gesù. Il disagio, l’abbandono a se stessi e l’obbligata solitudine di cui parla il Rapporto Censis non sono che l’espressione profetica dell’impotenza umana che cerca un punto su cui poggiare. Lo stesso Rapporto usa l’immagine delle “sette giare” per significare l’incomunicabilità di mondi non dialoganti all’interno della società italiana. Mi si permetta usare la stessa immagine per caratterizzare la società ai tempi di Gesù in cui romani, sadducei, farisei, esseni, zeloti, samaritani e pubblicani, come sette giare, non comunicavano tra di loro. Ci è voluto un punto attrattivo, Gesù di Nazareth, per far uscire dalle giare (da tutte!) le persone più dolorosamente ferite e creare intorno a lui un popolo nuovo che ha trasformato il mondo.
In questi giorni, guardare il Mistero di Dio fatto carne ci permette ripartire, nella certezza che tutti i nostri desideri e le circostanze brutte o meno che attraversiamo nella vita trovano in quel bambino il loro punto di convergenza.