Un ispettore di polizia, giunto alla vigilia del pensionamento, rivive il dramma che, capitatogli all’inizio della carriera, ha segnato il suo intero curriculum professionale: nel condurre un’inchiesta investigativa era incappato in una vasta trama di malaffari nella quale erano implicati i suoi diretti superiori e per essere rimasto ligio al suo dovere ha pagato il prezzo della sua dirittura morale col subire una sorta di ritorsione ambientale che di fatto l’ha destinato, oltre che all’isolamento tra i colleghi, a una carriera modesta e incolore.
Ora gli capita di incorrere in una situazione simile, sia pure su scala minore: nel piccolo distretto provinciale (poco più che paesano) nel quale presta servizio, mentre insegue gli indizi di una modesta ipotetica irregolarità scopre un giro di affari loschi ai quali partecipano personaggi importanti, compreso il suo comandante. Con le prove che ha in mano può far saltare parecchia gente che conta; sa che questa volta non ha niente da perdere e tuttavia è in dubbio. Perché? Che cosa lo trattiene dal chiudere il caso nel modo più semplice e più logico ossia denunciando i fatti alla magistratura?
Per quanto si cerchi nei risvolti della narrazione, la ragione di questo dubbio non si vede; né si riesce a intuire in che modo questo dubbio verrà sciolto. La vera suspense di questo romanzo è dunque posta nell’ultima pagina dove la storia, giunta all’ultimo atto, si interrompe del tutto inaspettatamente negandoci il finale.
In realtà la suspense è la cifra, almeno all’apparenza, più invasiva del racconto; ad essa è affidata la forza d’attrazione che cattura il lettore conducendolo a rompicollo da un episodio all’altro in un gioco ininterrotto di invenzioni ordite con mutevole e leggera fantasia. Ma c’è una storia parallela che si svolge accanto al filone cui si è fatto cenno. Anzi, il filone principale (che poi fa capo al titolo del romanzo) è un altro: l’ispettore di polizia Giovanni Zanca è incaricato di svolgere un’investigazione intorno a una strana Osteria (collocata sul Col Vetoraz vicino a Valdobbiadene tra le vigne del celebre Cartizze) dove in assenza di un oste e dei suoi commessi gli ingredienti commestibili di abbondanti e allegre refezioni vengono offerti ai clienti in un self service incontrollato (ma di notte un misterioso assistente provvede a rimettere ordine e pulizia).
L’esistenza di questa osteria è denunciata da una lettera anonima il giorno stesso in cui nella chiesa di S. Floriano avviene un furto che riguarda oggetti sacri preziosi e dipinti di valore. Gli appostamenti messi in opera dall’ispettore riguardano dapprima l’osteria senza oste ma si estendono poi, guidati da un puro caso, a un andirivieni notturno che fa capo a un vecchio casolare che si rivela alla fine deposito di refurtiva e contemporaneamente sede di una bisca clandestina. La situazione è, appunto, la riproposta del dramma personale dell’ispettore cui s’è fatto cenno all’inizio.
La prima qualità del romanzo è il piacevole e incalzante appello alla curiosità che marca il tessuto narrativo; il lettore è sollecitato, grazie alla fluidità del ritmo e alla vivacità del linguaggio, a una lettura rapida a cui lo sospinge d’altra parte l’ordito “poliziesco” del racconto. Si scrive tra virgolette perché questa qualità non esaurisce la definizione della trama e anzi non è neppure la parte più rilevante della sostanza narrativa; al punto che si può dire che è solo uno specchietto per le allodole dal quale il lettore attento deve sapersi guardare.
Un altro rischio che corre una lettura superficiale è insito nell’estro giocoso, ironico e fantastico del raccontare che in taluni punti tocca la stravaganza, la paradossalità, l’invenzione buffa, la verosimiglianza ridotta alle soglie dell’incredibile. Ne conseguono l’apparenza di un candido ottimismo e perfino da una spensieratezza giocosa atti a immunizzare dalla sofferenza che le storture e il male del mondo largamente rappresentati nella trama del romanzo producono normalmente in una coscienza vigile e sana. Ma se il lettore interpreta così la solarità che contrassegna l’atmosfera nella quale sono iscritti gli eventi che formano la trama del romanzo, vuol dire che gli sfugge la natura di metafora che è propria della storia.
Le situazioni e i fatti che con ritmo incalzante scorrono davanti ai nostri occhi non hanno molto a che fare con la commedia brillante. Ma che si tratti di altro non salta agli occhi bensì è solo suggerito da alcuni passaggi per altro molto discreti e perciò facili ad essere sottovalutati via via che si presentano nella narrazione. Sono illuminazioni improvvise e fulminee alle quali può sembrare che neppure l’autore dia molta importanza. Prendiamo il filo narrativo che ha per protagonista Chiara: che a questa ragazza sbandata, scontenta e cialtrona si riconduca un lembo secondario ma non marginale del contenuto “ideologico” del romanzo non è facile capirlo subito perché il negativo che caratterizza fin dall’inizio la sua figura, lontano dall’apparire drammatico e perciò degno di essere preso sul serio, presenta un aspetto dimesso e perfino banale. Eppure fin dall’inizio il lettore attento è messo sull’avviso quando sua madre a colloquio con la prof. Elena Tovazzi (che poi è la moglie dell’ispettore) dà sfogo al suo dolore per il destino di sua figlia; e, poco più in là, quando in un incontro banale col padre, casuale e perciò scarsamente significativo, Chiara se ne esce in quella domanda angosciata: “Ma io in che cosa potrò diventare grande?”.
L’insopprimibile aspirazione alla positività, ecco la sostanza della metafora raccolta nella storia di Chiara; aspirazione che una inscalfibile fiducia dichiara fondata e saldamente inerente al Destino buono (non a caso scritto con la lettera maiuscola nella bellissima lettera che la prof. Elena scrive alla sua allieva). E a maggior ragione la certezza della positività della vita è la sostanza della metafora complessiva della storia che si svolge attorno all’Osteria senza oste.
La stramba trovata (la nota di pag. 8 dà per realmente appartenente alla geografia di Valdobbiadene un locale così denominato e condotto) dà il destro all’autore per enunciare la filosofia per niente ingenua che permea il romanzo: “Il mondo è una grande Osteria senza oste. L’Oste del mondo c’è, ed è il più grande che si possa immaginare. E tutti i giorni ci prepara il dono delle stelle, il dono della vita, delle persone che incontriamo, di tante cose che ci possono servire, e noi possiamo accorgerci di questo, o no. Possiamo trattarle male, usarle per quello che ci passa per la testa in quel momento, oppure possiamo farci attenzione, capirne il valore, esserne grati”.
L’Oste c’è, dice l’autore. Non si vede, sembra che non ci sia; nell’Osteria capita di tutto, ma l’Oste c’è, eccome. La verità si fa strada in mezzo al dipanarsi di una storia stramba, a volte gaglioffesca, a volte brutta, a volte losca ma sempre antieroica cioè mantenuta alla portata di un’umanità immersa nella quotidianità. Così la sospensione della chiusura della seconda inchiesta (quella della bisca) si rivela come la geniale trovata che ha permesso all’autore di mettere in piano la chiusura della vera inchiesta che è la ricerca del significato che ha questa nostra esistenza, che si dibatte nel miscuglio di bene e di male, di banalità e di grandezza, di gaglioffaggine e di pulizia che frequentano la grande Osteria.
Molto originale davvero, e di gustosa lettura. Resta (ma questo va detto tra parentesi) da immaginare come Giovanni Zanca risolverà il dubbio sul da farsi dei dati venuti in suo possesso intorno alla bisca clandestina: se vorrà scoperchiare la pentola o affidare all’assistente notturno dell’Oste il compito di far trionfare il bene.
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Alberto Raffaelli, “L’Osteria senza oste”, Santi Quaranta, Treviso, 2013