LETTURE/ Da Orwell a Renzi: chi comanda in Italia?

- Giuseppe Reguzzoni

La sentenza di gennaio della Consulta contro il porcellum, il caso delle riforme e la vittoria di Renzi alle europee pongono una domanda scomoda, che attende una risposta. GIUSEPPE REGUZZONI

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Su questo giornale il costituzionalista Stelio Mangiameli si è soffermato sulla sentenza della Cassazione che, dichiarando illegittimo il Porcellum, sembra dare ragione al M5S sull’incostituzionalità del Parlamento eletto proprio con quella legge. Alla fine dell’intervista, in particolare, si legge che Renzi «può andare avanti tranquillo», anche se «agisce non più come presidente del Consiglio legittimato dal Parlamento, bensì come risolutore di una crisi di fatto. Lui e Napolitano diventano (…) i decisori di una situazione di crisi (…). Siamo in uno stato di eccezione in cui subentra un soggetto esterno che, per risolvere la crisi, impone determinate regole che consentono di uscire dallo stato di eccezione e ripristinare la legalità dell’ordinamento». Potremmo aggiungere, crediamo senza far torto all’interlocutore: “nonostante il voto trionfale di queste europee”.

Il linguaggio apparentemente asettico non nasconde la drammaticità della diagnosi e, tra l’altro, rivela l’ispirazione di Carl Schmitt. Fu questi, infatti, a elaborare, di fronte alla crisi profonda in cui era entrata la repubblica di Weimar, il celebre aforisma: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», che, peraltro, egli fa risalire direttamente a Bodin e, dunque, alle origini stesse dalla moderna teoria dello Stato. 

In polemica con l’astrattezza del normativismo positivist, Schmitt rifiuta il discorso sul «generale» e muove, coerentemente, dall’analisi dell’eccezione. Nella sua Teologia politica I scrive, pertanto: «una filosofia concreta di vita non può ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo». A sostegno di questa prospettiva epistemologica in contrasto con i suoi tempi, Schmitt cita, nel medesimo testo, pur senza nominarlo, Søren Kierkegaard: «L’eccezione spiega il generale e se stessa. E se si vuole studiare correttamente il generale, bisogna darsi da fare solo intorno a una reale eccezione. (…) Alla lunga si rimarrà disgustati dell’eterno luogo comune del generale; vi sono eccezioni. Se non si possono spiegare, neppure il generale è possibile spiegarlo» (La ripresa).

Ci sia allora concesso, sulla scia di Mangiameli, proseguire la riflessione circa la natura di questa “eccezione”, quando essa si riferisca, come nel nostro caso, all’anomalia della situazione politica italiana. Schmitt, riprendendo Bodin, afferma che sovrano è chi decide sullo stato di eccezione, cioè sul venir meno delle “normali” condizioni di governabilità, ma non dice che sempre e comunque qualcuno decide. L’affermazione è ancora più chiara se si considera che l’espressione “stato di eccezione” (Ausnahmezustand) è quanto meno ambigua, significando essa sia “condizione anomala” (come quella a cui fa riferimento l’intervista citata) che “situazione di emergenza, stato di necessità” (Notzustand). 

Sul piano della legalità formale, non c’è nulla da aggiungere a quanto riportato dalle risposte del professor Mangiameli. Ma la situazione in cui si trova l’Italia oggi non è anzitutto quella di una empasse legale, bensì di una crisi profonda di identità e sovranità. Sia ben chiaro che questo non è in alcun modo un’obiezione alle tesi affermate dal costituzionalista, ma solo e semplicemente il tentativo di andare oltre, in direzione della dimensione più propriamente (e culturalmente) politica della crisi in atto.

Quando una società si trova in una situazione di emergenza, sovrano è chi prende le decisioni. Ora, in Italia,  il punto è proprio che nessuno è in grado di prendere delle decisioni forti, vale a dire di avviare un processo di riforma radicale del sistema che, nell’ultimo quarto di secolo, è uscito indenne, e dunque più che mai inadeguato, da un profluvio di parole. Quando un sistema inizia ad avvitarsi su se stesso, in una decadenza culturale, politica ed economica che pare inarrestabile, è chiaro che nessuno, in realtà, esercita realmente la sovranità, vale a dire, è in grado di intervenire per cambiare rotta. La storia, d’altra parte, è piena di modelli statali e sociali in cui la mancanza di sovranità ha prodotto il disastro. Non si confonda, ovviamente, la sovranità con il puro mantenimento di posizioni di potere. Quelle, si sa, in Italia non mancano di certo.

Posto che non sono in discussione i grandi principi e che, certamente, il diritto precede lo stato, la domanda che investe oggi con forza la realtà effettuale del nostro sistema statale e sociale è proprio quella sulla sovranità ed è una domanda che si pone rispetto a uno “stato di eccezione”, in questo caso inteso come “stato di necessità”. La crisi corre parallela alle fratture di interessi divergenti tra aree regionali e tradizionale spaccatura tra paese reale e paese legale, in una tensione irrisolta e confusa tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Sussidiarietà e federalismo sono rimasti a livello di grandi parole, con l’aggravante, per il secondo, che esso è stato “sporcato” da un falso regionalismo, generatore di ulteriori clientelismi, sprechi e corruzione. È questo lo stato di eccezione cui ha portato un sistema ingessato dal formalismo legalistico in cui è precipitata l’interpretazione della Costituzione.

Chi decide oggi in Italia su questo stato di eccezione, non in teoria, ma in pratica? Chi ha il compito e il dovere di governare? Governare, come si governa una nave nella tempesta, si sarebbe detto un tempo e come icasticamente scriveva il nostro Dante Alighieri: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta …».  La sovranità non è, in sé e e per sé, la pienezza dei poteri, ma la capacità di esercitare la funzione di guida. Se la democrazia non è in grado di assumersi questa responsabilità, essa è destinata a degenerare in mera raccolta di consensi elettorali. È questo lo spettacolo indecoroso cui siamo costretti ad assistere da molti anni. Ma proprio l’atto e il coraggio del governare rendono ragione nella realtà di ogni giorno di ciò che è la sovranità. Quest’ultima, infatti, non può essere puramente teorica: o è pratica, o non è. La domanda è, allora: dov’è oggi la sovranità? 

Premesso che la sovranità è, in misura diversa, sempre relativa e, dunque, limitata, l’incertezza nella definizione di che cosa sia oggi “sovrano” ha a che fare con l’impossibilità di definire i contorni della crisi e del “soggetto” che ne è vittima. La sovranità è limitata all’esterno dagli accordi internazionali, ma questo vale anche per tutti gli altri paesi. Essa è, però, limitata anche all’interno, dalla forma con cui essa viene o non viene esercitata. Il problema è anzitutto qui. 

Il risentimento antitedesco su cui ha fatto leva gran parte della campagna elettorale assomiglia troppo al gioco puerile del dare la colpa agli altri, senza mai guardarsi in casa. D’altra parte, in questo momento l’ultima cosa da fare, perché essa non porterebbe che a perpetuare un sistema fallito, è limitarsi agli aspetti formalmente legali della crisi, mentre il vero problema è ritrovare i fondamenti della legittimità, cioè di quella dimensione che permette di intervenire sullo “stato di necessità”, anche ben oltre, se non contro, la legalità formale. 

Gli orrori e gli eccessi della “casta”, su cui ha vomitato il proprio sdegno il M5S, sono perfettamente “legali”, sono “diritti acquisiti”, come si suol dire, e sono lì a testimoniare l’inconsistenza etica e politica del solo piano della legalità formale. Chi non ha la memoria corta, sa che questo sdegno è lo stesso che ha portato voti, a suo tempo, a un partito come la Lega Nord, oggi ampiamente integrato, per quel che ne resta, in quel sistema che pretendeva di criticare.

Difficile non ritenere che la stessa cosa non succeda con il M5S. Orwell e la sua Fattoria degli animali sono lì a ricordare che prima delle rivoluzioni ci sono la debolezza della natura umana e la seduzione del potere e del denaro.

I sistemi costituzionali migliori non sono quelli più belli e più ordinati sulla carta, ma quelli che più tengono conto delle situazioni reali e della persona nella sua concretezza.

La sovranità appartiene al popolo, scrive la Costituzione italiana, che, peraltro, sottrae al popolo le decisioni in materia fiscale e quelle in materia di politica internazionale (dunque anche la possibilità di esprimersi direttamente su accordi e trattati che potrebbero portare a quella guerra che, pure «l’Italia rifiuta»). In un modello costituzionale più semplice e meno idealista, come quello vigente nella Confederazione Svizzera, il popolo può, invece, esprimersi direttamente su tutto. In Svizzera, “popolo” e “sovrano” sono identici, anche a livello linguistico, così, dopo i referendum, i giornali scrivono: il sovrano ha votato a maggioranza… etc. 

Così, il problema dello stato di necessità è inseparabile da quello della sovranità. La crisi della seconda è all’origine della prima. Chi governa realmente in Italia?

Mangiameli, nel passo riportato, ci parla di un soggetto esterno che, per risolvere la crisi, impone determinate regole e ripristina la legalità dell’ordinamento, facendo riferimento alla nascita degli ultimi governi. 

Carl Schmitt, che è all’origine di questa terminologia, distingueva peraltro due modalità di intervento, richiamandosi anche alla figura giuridica della “dittatura” nella repubblica romana: la dittatura commissaria e la dittatura costituzionale. La prima “restaura” l’ordine vigente, con un intervento interno o esterno (il presidente della Repubblica, l’Ue, i “poteri forti” …), la seconda si pone, invece, come forza costituente di un nuovo ordine giuridico, constatata l’irreversibilità della crisi e la necessità di superare un ordine che, malgrado la sua legalità formale, ne è all’origine. Non a caso, quest’ultima è chiamata anche “dittatura sovrana” e, con il linguaggio della democrazia, rinvia all’imperativo dell’assemblea costituente come principio di un nuovo ordine.





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