LETTURE/ L’antipolitica, Pasolini e le “macerie” del padre

- Cecilia Ricci

La sfiducia nel ruolo delle istituzioni così come nel potere costruttivo del dialogo stanno diventando fenomeni transnazionali. Quali sono le cause culturali? CECILIA RICCI

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Dietro al disinteresse generalizzato per le prossime elezioni europee del 25 maggio si nasconde, neanche troppo celato, il fantasma dell’antipolitica che sta crescendo pericolosamente negli ultimi anni – complice lo sfiorato collasso dell’economia nazionale, lo smascheramento degli inganni dell’alta finanza e la crisi dei partiti politici segnati dalla crescente corruzione –.

La sfiducia nel ruolo delle istituzioni così come nel potere costruttivo del dialogo stanno diventando fenomeni transnazionali. 

In fondo, con il teatrino messo in piedi da Beppe Grillo un paio di mesi fa durante la diretta delle consultazioni di Renzi, è andata in onda la stessa triviliazzazione del linguaggio che ha caratterizzato, oltralpe, i toni intimidatori e razzisti della politica di Le Pen e, in scala minore e in salsa spagnola, il violento attacco verbale e fisico ricevuto da alcuni studenti di Universitas all’università Complutense di Madrid durante il volantinaggio del documento Es bueno que tu existas a sostegno del progetto di legge del ministro Gallardon in difesa del nascituro e della donna incinta.

Nel pieno rispetto di una logica di opposizione, quella che si va affermando è una idea di politica come scontro totale in grado di radicarsi nel tempo della post-utopia davanti alle macerie degli ideali (prima il ’68 e poi il neocapitalismo liberista) verso cui ci si è scoperti prima «asserviti» e poi «traditi». 

Ma dietro alla crosta della politica è in atto ciò che Pasolini definiva una «mutazione antropologica» e il cui senso è indagato da Massimo Recalcati in Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre. Come spiega lo psicoanalista di fede lacaniana, un rapporto equilibrato tra le genenerazioni e una vita comunitaria volta a realizzare gli interessi della collettività, prevedono l’accettazione della «Legge della Parola», ovvero l’incontro con l’esperienza del limite che argina la tentazione di vivere la propria esistenza sotto l’apparente libertà del godimento immediato. In tal modo la Legge della Parola è quell’evento che consente di umanizzare la vita perché «ci apre alla sua dimensione finita, dipendente e lesa». 

Quando, in modo del tutto ragionevole, smettiamo di assecondare i capricci infantili e narcisisti che alimentano in una spirale infinita il nostro individualismo sfrenato, lo facciamo perché abbiamo fatto esperienza che la vita è sensata, ovvero più umana, se diventa un faticoso esercizio di traduzione che richiede la «mediazione dell’Altro». «Senza la presenza dell’Altro la vita umana muore, appasisce, perde il sentimento stesso della vita, si spegne», perché l’esistenza viene nuovamente rigettata nell’individualismo libertario e narcisista che celebra il culto dell’io e il suo principio di autodeterminazione. È il tempo della pasoliniana mutazione antropologica che istituisce  il dogma della «libertà priva di responsabilità». «Il fantasma della libertà rifiuta, insieme all’esperienza del limite, la discendenza, l’esperienza stessa della filiazione, rifiuta il nostro essere figli». 

La dittatura della libertà ipermoderna, del godimento immediato, senza limiti, dimentica che la vera libertà nasce sempre dal dialogo con qualcuno e quindi è sempre «dipendente», sempre «seconda» ad una presenza. Da George Steiner a Flannery O’Connor la libertà è intesa come risposta all’irruzione di una Presenza ed è misurata sulla base della nostra ospitalità ad accogliere l’ingresso dell’Altro nella grande arte (Steiner) o quello della Grazia nelle nostre vite sgangherate (O’Connor). Si tratta  quindi di scegliere – come ha detto il cardinale Angelo Scola nell’incontro centrale di EncuentroMadrid – tra concepirsi come l’esito del proprio esperimento (l’io narcisista sciolto da qualsiasi legame se non quello dell’assoggettamento al proprio interesse) o accettare di essere un io-in-relazione. 

Ecco perché recuperare la fiducia nella mediazione delle istituzioni, nel ruolo del dibattito politico, nel valore positivo del confronto che esige sempre narrazione di sé ed ascolto, richiede di soddisfare la domanda di testimonianza. Come ricorda Recalcati, nell’epoca dell’azzeramento di ogni ideale si fa sempre più viva l’esigenza di padri-testimoni. «Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l’ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato, vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso».





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