L’Italia culturale è un paese affetto da feticismo. C’è il feticismo ad oltranza di chi guarda alle opere d’arte come icone per calamitare pubblico. E c’è l’opposto feticismo conservativo per cui ogni opera d’arte sarebbe a rischio anche solo per una corrente d’aria di troppo.
La discussione attorno all’ipotesi di portare i Bronzi di Riace a Milano in occasione del prossimo Expo ricalca esattamente questo copione. Da una parte c’è Vittorio Sgarbi che ha lanciato l’idea, e la sovrintendenza calabrese che invece ha alzato le barricate. La proposta di Sgarbi credo sia dettata più da un innato gusto per la provocazione propria del personaggio, che non da un’intima convinzione. Sgarbi è uno studioso che ha sempre valorizzato l’arte dei territorio piuttosto che quella delle “icone”, come dimostra ad esempio la bella mostra sulla pittura del Trecento nelle Marche da lui organizzata in questi mesi a Fabriano. Fatto sta che lanciato il sasso, l’onda si è alzata e anche il ministro Franceschini si è detto possibilista. Dall’altra parte c’è la sovrintendente di Reggio Calabria che accampa studi in base ai quali le due statue, che per altro sono state per qualche decina di secoli sotto il mare, sarebbero di un’allarmante e improvvisa fragilità.
Nella polemica ieri si è inserito un personaggio autorevole come Salvatore Settis per ribadire la sua ben nota opposizione ferma al progetto, ma soprattutto per sottolineare un’idea che è la vera ragione per cui il portare a Milano i Bronzi di Riace è un’operazione senza senso. Scrive Settis su Repubblica: «Quando vale la pena muover un’opera d’arte per una mostra? Farsi questa domanda ha uno svantaggio: obbliga a pensare… Le mostra servono se creano relazioni tra opere normalmente lontane, se nascono da un progetto, da una ricerca: se comportano acquisti di conoscenza sia per gli esperti che per il pubblico. Questa regola non vale solo per i capolavori supremi (come i Bronzi), ma per qualsiasi opera d’arte. Perché il nostro patrimonio culturale non è una collezione di icone ma un deposito di memoria culturale» (il corsivo è mio). Questo è il vero punto: portare i Bronzi a Milano non mette a repentaglio le statue, ma mette a repentaglio l’identità del nostro patrimonio. Il che, se mi è permesso, è ancor più grave.
L’Italia non è un paese qualunque. Ha un tessuto diffuso di bellezza che integra paesaggio, arte e stili di vita che è un unicum al mondo. Ogni opera è legata ad una storia e ad un contesto e solo in virtù di quel legame si è in grado di capirla e di assimilarne la bellezza. Questo vale per il piccolo paese della provincia più incantata come per la città più violentemente modernizzata. Prendiamo Milano, che tra qualche mese sarà teatro dell’Expo: è molto più sensato puntare su quei capolavori, per altro potentemente iconici, che sono però legati alla sua storia.
Non parliamo solo del Cenacolo che è il dono più straordinario lasciato da Leonardo negli oltre 20 anni che passò tra le mura di Milano, segnandone identità e storia. Parliamo della Pietà Rondanini di Michelangelo che tra qualche mese troverà una sua collocazione tutta nuova e finalmente adeguata, che la riporterà giustamente al centro dell’attenzione (verrà sistemata in un grande spazio all’ingresso del Castello Sforzesco, con un progetto firmato da Michele De Lucchi).
La Pietà, a differenza del Cenacolo, non venne realizzata per Milano, ma arrivò nella città lombarda nel 1952 grazie a una sottoscrizione pubblica che permise al Comune di acquisirla. Era un stagione in cui non si pensava tanto alle icone quanto al fatto che una grande città come Milano nelle sue raccolte fosse priva di opere di questo altro grande genio del nostro Rinascimento. E quindi, sulla base di una visione molto civile della cultura, si era proposto alla cittadinanza l’idea di acquisire quel capolavoro come patrimonio pubblico. Così è andata. E oggi la Pietà di Michelangelo è diventata una vera icona di Milano, anche nel senso che esprime quella dimensione di solidarietà e di centralità dell’uomo sofferente che è nel dna della città. Farle ombra con i Bronzi di Riace è un’operazione insulsa e in fondo anche masochistica.