«Il supremo ostacolo al cammino nostro di uomini è la “trascuratezza” dell’io. Il primo punto, allora, di un cammino umano è l’interesse per il proprio io, per la propria persona. Un interesse che sembrerebbe ovvio, mentre non lo è per nulla: basta guardare al nostro quotidiano comportamento per vedere quali immani squarci di vuoto della coscienza e di sperdutezza della memoria lo qualificano».
Don Giussani è imprevedibile. Ci sorprende sempre. Chi di noi avrebbe mai detto che il supremo ostacolo al nostro cammino di uomini è la trascuratezza dell’io? A noi tutto il resto sembra più importante di questo. E proprio tale constatazione mostra fino a che punto si è oscurata in noi la percezione del nostro io. Lo affermava nel 1992 don Giussani, identificando in questo oscuramento il segno di una “età barbarica” che avanzava (oggi possiamo riconoscere con più evidenza di dati quanto avesse visto giusto): «Dietro la sempre più fragile maschera della parola “io” c’è oggi una grande confusione». La conseguenza è davanti agli occhi di tutti: «Nessuna disumanità è più grande che far scomparire l’io: è precisamente questa la disumanità del nostro tempo».
In questa situazione tutto sembrerebbe perduto. Ma lo sguardo di don Giussani è diverso. Riesce a vedere nell’io un germoglio che gli altri non vedono. Egli, infatti, ci aiuta a riconoscere che anche in questo contesto resta intatta nell’io, pur così confuso, l’attesa di salvezza, «come dice Adorno; l’uomo attende dalla verità delle cose, comunque la si concepisca, che emerga, nonostante tutto, dentro l’apparenza, oltre essa, l’immagine della salvezza. L’attesa della salvezza è inevitabile».
Ma da dove può venire questa salvezza? Con molto realismo sulla natura sterminata del nostro bisogno, don Giussani invita a riconoscere che «questa salvezza non può nascere da noi, non può essere inventata da noi, né da noi singoli né da tutti insieme. Da dove può venire, allora? «È solo un avvenimentoche può rendere chiaro e consistente l’io nei suoi fattori costitutivi. È questo un paradosso che nessuna filosofia e nessuna teoria – sociologica o politica – riesce a tollerare: che sia un avvenimento, non un’analisi, non una registrazione di sentimenti, il catalizzatore che permette ai fattori del nostro io di venire a galla con chiarezza e di comporsi ai nostri occhi, davanti alla nostra coscienza, con limpidità ferma, duratura, stabile».
«Immaginiamoci Andrea e Giovanni, due pescatori rotti alla fatica, senza fantasie eccessive, immaginiamoli mentre vanno con Lui, prima mentre Lo seguono taciti e poi quando vanno con Lui fino a casa Sua: guardandoLo sentivano se stessi, non erano più loro, non erano più quello che erano la sera precedente, non erano più quello che erano la mattina quando sono partiti da casa. Se uno li avesse presi due giorni prima e avesse detto: “Giovanni e Andrea, pensate al vostro io, pensate alla vostra persona”, avrebbero detto: “Beh, speriamo di prendere tanti pesci stanotte, speriamo che mia moglie guarisca, speriamo che i figli crescano bene”, ma non avrebbero mai pensato a quello che hanno sentito; vedendo quell’uomo hanno sentito loro stessi».
Come vediamo, l’avvenimento ha la forma di un incontro umano alla portata di ciascuno. Non sono richieste condizioni previe particolari, se non l’essere uomini. È un incontro che ridesta l’io dalla sua trascuratezza. Per questo dice don Giussani: «L’incontro risuscita la personalità, fa percepire o ripercepire, fa scoprire il senso della propria dignità. E siccome la personalità umana è composta di intelligenza e di affettività o libertà, in quell’incontro l’intelligenza si desta in una curiosità nuova, in una volontà di verità nuova, in un desiderio di sincerità nuova, in un desiderio di conoscere com’è veramente la realtà, e l’io incomincia a fremere di un’affezione all’esistente, alla vita, a sé, agli altri, che prima non aveva».
Ma c’è un inconveniente, direbbe don Giussani: questo avvenimento così pieno di conseguenze deve essere riconosciuto. «Occorre un io che lo accolga». Ma che cosa spinge l’uomo a accoglierlo? Il cuore, la cosa più trascurata eppure più decisiva per fare un cammino umano: «Senza cuore, senza che tu abbia cuore, senza che ti conservi il cuore che ti è stato dato, senza cuore Dio non può far nulla».
Perché questa insistenza sull’io? Perché essere se stessi è l’unica risorsa per frenare l’invadenza del potere. La fase della politica, centrata sulla conquista del potere, aveva fatto emergere le estreme conseguenze di questa mancanza di autocoscienza dell’io. Di fronte al tentativo di spostare l’attenzione sull’azione dell’io nella società, don Giussani ci corregge. «L’unica risorsa che ci resta è una ripresa potente del senso cristiano dell’io. Dico del senso “cristiano” non per un preconcetto, ma perché è solo, di fatto, la concezione che Cristo ha della persona umana, dell’io, che spiega tutti i fattori che noi sentiamo irruenti dentro di noi, emergere in noi, per cui nessun potere potrà schiacciare l’io come tale, impedire all’io di essere io».
Ma che cosa fa riprendere l’io quando si smarrisce? Ecco la risposta di Giussani: «Solo la compagnia tra noi può sostenere lo sforzo, il rischio, il coraggio del singolo. Ma una compagnia che tutta quanta si esaurisca nel sostenere la ripresa del singolo non può esserci, non può essere trovata tra gli uomini, tra gli uomini soli. Occorre la presenza di un Altro, di un uomo che è più che uomo: Dio venuto in questo mondo per coagulare questa solidarietà che rafforzi e renda capace di riprendere continuamente la via al vero e al bene attraverso una fatica comune».
Perciò quello che definisce la compagnia cristiana è la «memoria» di quel fatto. Nessuna rete di protezione, nessun parafulmine o riparo dai temporali della vita. Al contrario, «essere in compagnia significa non lasciarsi fermare di fronte a nessuna negatività, a nessuna negazione, ma anche a nessun sacrificio, a nessuna fatica; e la protensione, la voglia del più grande, del più vero, diventa più importante di qualsiasi altra cosa».