Il mito antico ci ha lasciato due storie che hanno degli aspetti in comune: due ragazzi, due padri e il cielo. La prima è la storia di Fetonte, che conosciamo con varianti da diversi accenni e frammenti di opere, ma la narrazione più ampia a cui ci rifacciamo è quella del poeta delle Metamorfosi, Ovidio.
Fetonte, “lo Splendente”, cresce fra gli Etiopi, ma sua madre l’ha allevato dicendogli che è figlio del dio del sole, Elio/Febo. Come avviene spesso nei miti, è l’insulto di un compagno a mettere in dubbio la paternità e l’identità del ragazzo che, non bastandogli la rassicurazione materna, decide di andare in cerca del padre, a oriente dell’Etiopia dov’è vissuto. Il Sole lo accoglie con pieno affetto e gli promette un dono a sua scelta: tipico motivo mitico/fiabesco che si rivela quasi sempre improvvido. Felice per la certezza raggiunta ma come bisognoso di conferme su di sé e sul loro rapporto, Fetonte sceglie ciò che più contraddistingue il padre e lo può rendere per un giorno pari a lui: guidare il carro infuocato tirato dai cavalli alati.
Ma il ragazzo è troppo giovane e non è un dio. Gli dice il padre: “Chiedi un dono grande, Fetonte, che non si addice alla tua forza e ad anni così giovanili. Il tuo destino è mortale, ciò che desideri non è mortale“. Tuttavia il Sole ha giurato e deve mantenere la promessa, con molte raccomandazioni sulla rotta e sulla guida dei cavalli indocili; il figlio lo ascolta a malapena e salta sul carro pieno di gioia. Subito i cavalli sentono che il carro è più leggero e la guida inesperta: si sbrigliano e lasciano la via consueta nel cielo. Ovidio descrive la folle corsa della quadriga in balia di un ragazzo spaventato: “i cavalli vagano qua e là e, senza che nessuno li trattenga, vanno per luoghi ignoti dell’aria; dovunque li porti l’impeto si precipitano senza regola, urtano nella sommità del cielo le stelle fisse e ora salgono in alto, ora scendono a capofitto più vicini alla terra“.
E’ la dea stessa della terra a chiedere aiuto a Giove davanti alla minaccia del carro infuocato, che distruggerebbe lei e l’operosità degli uomini: “Questa è la ricompensa che mi dai, questo l’onore per la fecondità e il lavoro, le ferite sopportate dall’aratro adunco e dai rastrelli, la fatica di tutto l’anno, il dono di foraggio e dolci alimenti al bestiame, di messi agli uomini, d’incenso agli dèi?“. Giove l’ascolta e scaglia un fulmine sul carro, distruggendolo: i cavalli si liberano e Fetonte precipita coi capelli in fiamme, simile ad una stella cadente. La discesa mortale termina lontano dalla sua terra, nel fiume che sarà il Po; e le sorelle in pianto sono trasformate nei lunghi filari d’alberi della nostra pianura.
L’altra storia è quella di un padre mortale, Dedalo, e del figlio Icaro. Lunga e mostruosa è la vicenda che porta il grande artefice ateniese a Creta, al servizio di Minosse: dopo la costruzione del labirinto che tiene prigioniero e insieme difende un mostro semiumano, Dedalo e il figlio restano bloccati sull’isola, anch’essi prigionieri. Ma Dedalo ha un progetto (è anche qui Ovidio a narrare): “Chiuda pure la terra e le onde, ma almeno il cielo è aperto; andremo per di là: Minosse possieda pure tutto, non possiede l’aria“. Fabbrica delle ali per sé e per Icaro, unendo penne e piume con corde e cera; poi dà ad Icaro le indicazioni sul volo: “Tieni una rotta intermedia, perché l’onda non appesantisca le ali se scendi troppo in basso e il fuoco non le bruci se sali troppo in alto; procedi secondo la mia guida“. Partono, sono a metà della via per Atene, “quando il ragazzo cominciò a gioire del volo audace e abbandonò la guida e tratto dal desiderio del cielo salì più in alto“. Il calore del sole scioglie la cera e Icaro precipita in mare. Il padre si volta a cercarlo, non lo vede, ma scorge sull’acqua le penne delle ali.
Due padri, due figli, in situazioni molto diverse, ma con delle analogie. Nei padri tutta la saggezza che l’uomo pagano ha espresso in tante forme e voci: il senso del limite, la consapevolezza di non essere dio, l’equilibrio, la responsabilità, il seguire una guida. Nei figli l’emulazione del padre, l’abbandono della guida, la gioia del pericolo, l’incoscienza nel volere e nell’agire, il desiderio del cielo. Grandi e dolorose le figure paterne, entrambe consapevoli di aver causato involontariamente la morte del figlio: il Sole dopo la morte di Fetonte si rifiuta di guidare il nuovo carro e provoca Giove con un corruccio astioso che cela il senso di colpa, Dedalo maledice la sua arte mentre raccoglie e seppellisce il figlio; nella variante accolta da Virgilio il suo viaggio termina a Cuma, dove l’artefice consacra un tempio ad Apollo scolpendovi la storia di Creta e sua, ma non riesce a scolpire il tragico volo del figlio: “anche tu, Icaro, avresti una grande parte in un’opera così grandiosa, se lo permettesse il dolore: due volte tentò di raffigurare in oro la tua caduta, due volte le mani del padre ricaddero“. Ma il tentativo di Fetonte colpisce le ninfe esperidi che gli dedicano un epitaffio: “se non riuscì a reggere il carro, tuttavia cadde dopo aver osato molto“. E il desiderio del cielo di Icaro continua ad affascinare ancora oggi.