Nel Medioevo gli uomini e le donne erano soliti concepire se stessi non come individui solitari, ma come membri di un corpo sociale: la famiglia, la parentela, il vicinato, la confraternita, la corporazione, il collegio, il villaggio, la città, erano tutti luoghi osmotici, dove l’individuo si muoveva intrattenendo relazioni che portavano solidarietà ma anche vincoli sociali. Fatta eccezione per eremiti, santi e briganti — scrive nel 1314 il frate francescano Paolino, autore di un trattato in volgare veneziano sul modo di governare — l’esistenza di uomini e donne non può considerarsi compiuta se non prevede una costante comunicazione fra tre ambienti concentrici: la casa, ovvero la famiglia, il vicinato e la città, o qualsiasi distretto di maggiore entità. “L’omo — afferma Paolino minorita — naturalmente no de’ viver solitario, ma falli mester de viver con molti. Plu avanti è da saver ka viver con molti po esser in tre modi. Un modo si è a viver en una casa; el segondo è a viver en un visinado; el terço è a viver en comunança ossia [de] citade o de algun maçor destreto o de riame”.
Chi si trova nella posizione di reggere e guidare queste comunità deve “sevir lo bene e schivar lo male”, coltivando alcune virtù (la prudenza, l’onestà, la temperanza, la pazienza, la magnanimità e così via), e facendosi guidare da fondamentali principi, come il senso di giustizia e l’amore. L’amore deve anzitutto essere rivolto a Dio, che tutto ha creato, e poi agli uomini che il rettore andrà a governare, privilegiando l’interesse comune sul particolare.
Ci muoviamo qui in un contesto che si richiama alle numerose riflessioni che dal Duecento, grazie anche alle coeve traduzioni latine delle opere di Aristotele, si svilupparono intorno ai temi della politica, della morale, dell’amore. Formare cristianamente gli uomini e educare i cittadini erano considerate operazioni che dovevano andare di pari passo: il civis Christianus, il cittadino cristiano, è al centro delle opere del celebre giudice Albertano da Brescia, autore di trattati morali e sermoni rivolti a confraternite di uomini di legge legate ad ambienti francescani di Genova e Brescia. I confratelli causidici e notai, predica Albertano, si riuniscano per onorare Dio e per nutrire i poveri, alimentino il fuoco della fede che allontana dal peccato, mantenendo sempre accesi i ceri dell’altare della loro confraternita, pronunciando preghiere e facendo la carità: sappiano quando parlare e quando tacere, rifiutino il male e facciano il bene, si adoperino per la pace, seguano ideali di saggezza, giustizia, verità.
Anche la retorica delle confraternite sull’amore reciproco, sulla carità, sulla pace, sulla giustizia — che ritroviamo costantemente espressa negli statuti e regole di queste associazioni — richiama questa tradizione teologica e filosofica: lungi da essere un debole richiamo ai valori evangelici, è un linguaggio che si inserisce in un dibattito alto e che individua nelle associazioni, che rafforzano i legami affettivi tra gli uomini, un mezzo per la crescita spirituale, culturale e sociale dell’individuo.
Proponiamo qualche esempio tratto da realtà comunali di non primissimo piano, per lo meno ai nostri occhi contemporanei, ma non per questo meno importanti in età medievale. Le preghiere settimanali dei confratelli della compagnia mantovana di disciplinati intitolata a S. Maria della Misericordia, messe per iscritto ai primi del Trecento, avrebbero dovuto essere recitate, fra i tanti destinatari, “per lo santo patre, cioè per lo papa, et per tuti li prelati de la Santa Matre Gesia, et maxime per el vescovo de questa cità … per lo imperatore, regi e signori de la cristianità, et maxime per el signor di questa cità, a ciò li habiano gracia de rezere i stadi sui secundo la voluntà de Dio”. Gli statuti della confraternita, ispirati dal vescovo mantovano del tempo, chiedevano dunque a chi vestiva l’abito della disciplina di esercitarsi — tramite la preghiera, la carità, e la riflessione sulle proprie azioni — ad essere un buon fedele, ma anche un buon suddito, e di farsi partecipe della salvezza propria, dei confratelli e di quella dei rettori della Chiesa e dello stato. E raccomandavano che questa veste non fosse solo immagine, ma anche sostanza. Lo statuto è un esempio prezioso che mette in luce come le confraternite fungessero da palestra di vita civile, risultando un luogo di educazione religiosa e di formazione sociale, dove si impartivano norme finalizzate al miglioramento spirituale e civico degli associati, nella consapevolezza del contributo che una collettività istruita allo spirito di mutualità e reciprocità forniva alla comunità intera.
Progetto e ideale di molte confraternite fra Due e Trecento fu dunque l’inserimento dell’individuo nella comunità, traendolo dalla sua condizione originaria e facendolo compartecipe della costruzione della società. E non si trattava solo di retorica. Le confraternite partecipavano infatti anche alla definizione sociale e territoriale dei contesti urbani. Successe ad Aosta, con la confraternita di S. Spirito composta dagli abitanti del borgo di Porta S. Orso che se ne servivano per farsi rappresentare davanti al vescovo; ma anche ad Arezzo, con la Fraternita dei Laici sorta nel Duecento in ambiente mendicante e individuata successivamente dal Comune come perno organizzativo di servizi collettivi di grande utilità e pertanto soggetta a controllo pubblico al punto tale che ogni nuovo nato in città contestualmente al battesimo avrebbe dovuto essere immatricolato nella confraternita; ed infine ad Assisi, dove nel 1367 i priori dei sodalizi confraternali ricevettero incarico dal Comune di valutare i danni subiti dai mulini sul fiume Chiascio a Bastia, devastati dal passaggio delle truppe dei condottieri Giovanni Acuto e Ambrogio Visconti da Milano.
L’individuo nella confraternita coltivava dunque anche responsabilità sociali e identità civili. Gli ideali veicolati dalle confraternite — la retta fede, la carità, la pace, l’onestà, l’amore, il bene comune, la giustizia — erano strumenti concettuali che andavano a conformare l’animo e il comportamento dei buoni fedeli, ma anche dei buoni cittadini e dei buoni sudditi. Analogamente ai disciplinati di Mantova, anche i loro confratelli flagellanti di Parma e Piacenza avrebbero dovuto “primamente pregare per lo stato de santa Madre gexia, zoe per mesere lo papa e per gi so cardinai, arciviscuvhi, veschivi, previdi e frai”, e poi ancora “per messer lo Imperadore ed per tuti gli soi vicarii e i principi e baroni”, e poi “per zaschauna creatura raxonevole, como zude, pagan, saraxin, … per zaschaduna anima christiana … per piligrim, per merchadanti e per viandanti, chi sum per mare e per terra, … per la paxe … per gi fructi de la terra, … per le anime de nostri pare e mare e fradegi e sorore, … per gi nostri fradegi chi sum per tuto el mundo chi son de questa congregation”, in un abbraccio ecumenico che partiva dalle sfere più alte del mondo per chiudersi sui membri della compagnia.
Se in tempi successivi, cioè dal Quattrocento in poi, le frequenti dichiarazioni di fedeltà al regime politico inserite negli statuti confraternali sarebbero derivate soprattutto dal desiderio delle compagnie religiose di non incorrere nella censura operata dalle autorità, timorose delle congiure che avrebbero potuto essere tramate all’interno di gruppi chiusi, possibili fomentatori di dissenso, in questa fase precedente il significato delle benedizioni invocate per i papi, i vescovi, i frati, gli imperatori e i principi, pare davvero un altro, ovvero il volersi fare portatori, attraverso la preghiera e la cura del prossimo, di un messaggio di salvezza collettiva, coinvolgente non solo le anime cristiane ma anche la totalità delle creature dotate di ragione, compresi ebrei, musulmani e pagani.