L’agguato di Dio (Edizioni San Paolo, 2015), l’ultimo libro di Marco Pozza, cappellano in un carcere e teologo, è un lungo ripercorrere la storia della vita di Cristo, attraverso i suoi gesti e il suo incidere nei rapporti umani.
E se Vittorio Messori, nel suo Ipotesi su Gesù, quasi quarant’anni fa, parlava di “un Dio nascosto e scomodo”, Pozza delinea l’immagine di un Dio che, addirittura, tende un agguato all’uomo, per raggiungerlo, per parlargli, per conquistarlo, per farselo compagno. E i mezzi attraverso cui Dio tende e realizza questo agguato sono la specificità dell’uomo, le sue caratteristiche costituzionali, come la sua temporalità, e, soprattutto, la sua sensorialità, come insegna la storia dell’emorroissa: è possibile che Cristo, pressato da ogni parte dalla folla che faceva ressa attorno a lui, si rendesse conto proprio del tocco di questa donna malata e in cerca di guarigione (Lc 8, 44)? Certo che sì, perché, come annota Pozza, rifacendosi al commento di Agostino, turba premit, illa tangit: la folla preme indistintamente, ma lei tocca intenzionalmente. Come dice l’autore nella conclusione del volume:
“La vista, consolata, è beatitudine.
L’udito, consolato, è una ninna nanna.
Il tatto, consolato, è una carezza.
Il gusto, consolato, è dolcezza.
L’odorato, consolato, è nostalgia.
Un orologio senza batteria, un uomo senza sonno,
un prete senza più fede. Quaggiù è dramma, lassù è
annunciazione”.
Scritto in un linguaggio semplice, eppure ricco di accensioni poetiche, strutturato in capitoli le cui “Parentesi” sono, come spesso accade nella vita, consustanziali, anzi, quasi più importanti della linea discorsiva principiale, L’agguato di Dio rende a un tempo stesso straniante e familiare il racconto della vita di Cristo, che, nei suoi fili tematici, si rivela comprensibile, proprio dal punto di vista esperienziale, alla luce dell’esperienza di vita di ogni uomo. Quello raccontato è un “Dio nascosto” che lavora per conquistare e prendere sede nel cuore degli uomini, per stare con loro e in mezzo a loro, per farseli amici, “con provocante familiarità e destrezza” (p. 105), un Dio che “sopraggiunta la sera coi suoi tiratardi, non disdegna di spartire con l’umano qualche fetta di pane azzimo, un pugno di carne d’agnello, qualche ciuffo d’erbe amare”. Perché è solo partecipando della materialità dell’esperienza esistenziale che si possono creare i legami più saldi, come dimostra il fatto stesso che Dio si sia fatto pane.
Il Dio che emerge da queste pagine è un Dio assai poco aulico, lontano dalla solennità gloriosa e marmorea di certe immagini; è, piuttosto, un Dio vicino, a partire dal suo primo miracolo, quello operato alle nozze di Cana, che così viene ripercorso e rinarrato dall’autore: “Iniziò a Cana di Galilea la conquista dei cuori da parte del nazareno.
Fu poeta: nel vino scorgeva il regno di lassù, nell’angustia intravedeva una fessura, in un’anca fiacca incastrò uno sperone d’eternità. Per taluni miracoli, rimasti nei secoli dissacranti, gli procurarono del legno e un ciuffo di chiodi: l’ubriacatura della croce fu la netta conseguenza d’un vino per veri intenditori della gioia” (p. 112). E così, anche quando “decise di fare testamento, indisse un banchetto e lo scrisse attorno a una tavola: davanti a lui piccole ciotole di terracotta e del vino. Accanto a loro del pane azzimo a disposizione. Tutto come agli inizi: «Prese il calice». Ancora un mutamento di vino: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza» (Mt 26,27-28). Esordì a Cana e salutò a Gerusalemme: nel nome del vino” (ibid.).
In quest’ottica si capisce la Ringkomposition su cui è costruito il volume, che si apre sulla storia di Giordano, evidentemente uno dei carcerati conosciuti da Pozza nella sua esperienza di cappellano: forse un personaggio reale, forse una creazione artistica e simbolica in cui si concentrano e coagulano tanti particolari di personaggi conosciuti nella sua esperienza di sacerdote: nella sua vita sfortunata, disgraziata, offesa nel corpo e nell’anima, Giordano è una summa dell’umanità che cerca e anela ristoro in Dio. E allora anche una Messa sentita per spizzichi e bocconi, con la convinzione, forse un po’ dissennata, certo ingenua, che quella sia l’ultima domenica nella casa circondariale, finendo per addormentarsi, diventa un segno di misericordia, degna realizzazione della parola evangelica: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. (Mt 11,28).