Pare che l’editoria libraria italiana, molto autori, molti operatori, manager e consulenti (per non dire dei giornalisti specializzati) siano particolarmente competenti nell’affrontare i problemi per la coda.
E’ stata, ad esempio, recentemente annunciata una importante campagna, per la promozione del libro e della lettura, dal corrivo titolo #ioleggoperché. Ennesima campagna, che sicuramente darà i frutti delle altre: zero. Anzi, sottozero, se è vero, come purtroppo è vero, che gli indici di lettura in Italia sono a livello del terzo mondo e in continuo calo, e l’intera filiera editoriale libraria è allo sfascio. Il concetto ispiratore della nuova campagna sembra essere mutuato dalle raffinate strategie di marketing utilizzate nel mercato illegale delle droghe, con tanto di pusher pudicamente chiamati “messaggeri”: regaliamo libri (libri purchessia, verrebbe da dire), rendiamo schiavi della lettura “a gratis” i ben capitati che riceveranno in omaggio 240mila volumi (24 titoli per 10mila copie cad.), e vedrete che poi questi nuovi tossicodipendenti correranno a comperare e leggere libri. Insomma, la lettura come una qualunque sostanza psicotropa.
Annunciata in pompa magna, la campagna, che raggiungerà il suo apice il 23 di aprile, per ora ha raccolto, accanto ai prevedibili entusiastici elogi di chi non può che elogiare, più che altro sberleffi. Vedasi il commento al vetriolo di Claudio Giunta sul Domenicale del 1° marzo o i dileggi in rete di BookBlister.
Nessuno tra i promotori della campagna, Associazione editori in testa, che si sia preso la briga non dico di rileggere (sic!) i maestri della sociologia della letteratura, dalle cui opere si potrebbe ben capire perché nel nostro paese la lettura è negletta, ma nemmeno si sia posto, con onestà intellettuale, alcune semplici domande, in merito ad esempio al fatto che sono i giovani laureati a leggere sempre meno, e che conseguentemente, di questo passo, avremo presto (?) una classe dirigente drammaticamente incolta, se non affetta da analfabetismo di ritorno.
In effetti, il libro nelle università, tempio del sapere, è un oggetto sempre più estraneo, quasi sconosciuto. E non perché sostituito da strumenti di insegnamento sofisticati (strumenti della cui efficacia formativa, peraltro, è più che lecito dubitare), bensì perché smembrato, svilito, volgarmente surrogato da ammassi di fotocopie piratate o da slide da supermercato della formazione. Peraltro ben incasellato dalla storica “riforma” di un paio di lustri fa, che, tra le altre nefandezze, poneva ai poveri studenti, così martoriati dallo studio, rigide barriere alla quantità di pagine indicate nelle bibliografie dei corsi: non sia mai che ti capiti una pagina in più. Altro che “sudate carte”, su cui spendere “la miglior parte”. Il libro come nemico: forse non si può evitare, ma che perlomeno sia contingentato, ristretto in invalicabili confini.
Nel frattempo, decine, centinaia di librerie di catalogo (le librerie universitarie erano, per definizione, di catalogo), dal nord al sud dello Stivale, mandate al macero. Alla faccia della “difesa del patrimonio culturale del Paese”.
Stessa deriva, prendere i problemi per la coda, mi pare stia cogliendo il dibattito che anima “la parte migliore del Paese”da quando è stato annunciato l’interesse di Mondadori all’acquisto di Rcs Libri: grandi lai, stracciar di vesti, accuse di incombente monopolio culturale.
A parte la banale considerazione che la Mondadori berlusconiana ha saputo, ad esempio, ben garantire l’autonomia della storica Einaudi, rispettandone profilo, fisionomia e ruolo culturale, facendola crescere e portandola a livelli mai raggiunti prima, siamo certi che il problema sia il rischio di monopolio, o meglio di oligopolio?
A me pare di no.
Se ci sforzassimo di guardare la realtà per quello che è, ci accorgeremmo che già ora il mercato editoriale librario (meglio: quel che ne resta) è afflitto non da oligopolio, ma da oligopsonio: non pochi produttori che si spartiscono il mercato, ma pochi — pochissimi ormai — acquirenti che canalizzano, intermediano la relazione tra produttore e cliente finale. L’Italia è l’unico paese al mondo, perlomeno tra quelli cosiddetti avanzati, in cui alla concentrazione orizzontale si accompagna una formidabile, in atto da anni, e totalmente incontrastata, integrazione verticale. Una forma di “privatizzazione delle filiere” che non ha eguali: il nostro è l’unico mercato in cui le catene di librerie sono di sigla editoriale.
Grande merito va all’acciaccata Feltrinelli: da circa due decenni, dove apriva una Feltrinelli chiudevano almeno tre librerie indipendenti. Ora che le Feltrinelli chiudono, per la crisi del mercato, ma anche per la conclamata miopia e palese incapacità di un management importato da altri settori merceologici, settori che nulla hanno a che vedere con un prodotto delicato come il libro, resta il deserto. Processo completato con la distruzione di PDE, il fu secondo distributore indipendente del paese. Acquistato pochi anni fa da una Feltrinelli ansiosa di completare l’integrazione verticale delle sue attività editoriali, è stato recentemente affibbiato, in stato oramai comatoso, a Messaggerie Libri.
Ottimo risultato davvero: Messaggerie è divenuto in questo modo l’unico distributore indipendente (chiamiamolo così, anche se l’integrazione verticale non manca nemmeno in questo caso, visto che detiene la proprietà di Gems, e controlla Ibs, Opportunity, Ubik…) di dimensioni nazionali.
Certo, Mondadori ha sviluppato, in questi anni, una formidabile struttura distributiva, con centinaia di punti vendita in franchising (in molti casi, unica ancora di salvezza per le librerie indipendenti impossibilitate a reggere da sole i marosi e che hanno così potuto continuare a esistere, seppure in altra forma e con inevitabili vincoli), ma dov’era e dov’è “la parte migliore del paese” mentre tutto questo avveniva, sotto gli occhi di tutti, se solo si fosse voluto guardare*?
Su tutto, l’ombra incombente di Amazon. Prossimo vero monopsonio.
Infine, un’ultima, ancora banale, considerazione: il gruppo che sorgesse dalla fusione di Mondadori con Rcs Libri sarebbe certo importante a livello nazionale, ma pur sempre un nano rispetto ai grandi operatori internazionali, il cui fatturato è valutabile in multipli dell’intero mercato librario italiano. Sarà un caso, ma questi gruppi, veri player globali, sono tutti fortemente radicati nel mercato accademico-professionale.
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*Vedi: Innocenzo Pontremoli, Il martedì nero dell’editoria italiana, Consumatori, diritti e mercato, n. 2/2008