Studio quanto mai inconsueto nel panorama saggistico italiano, il libro di Stefano Bertani (Il letterato Darwin. La scrittura dell’evoluzione, Editori Riuniti, 2015) nasce da una lunga consuetudine che l’autore ha riservato alla lettura e alla ricognizione dei maggiori «scienziati-letterati» italiani, come li definiva Croce, e all’ambiente culturale degli intellettuali e scrittori, darwinisti e no, che movimentarono il ricchissimo clima culturale del nostro «Secolo del Progresso».
Un cinquantennio, in verità, contraddistinto dalla diffusione del darwinismo e dello spencerismo, dalle scienze applicate, dalle rivoluzioni sociali, dalle passioni nazionaliste e dalle tanto celebrate Esposizioni Universali (oggi chiamate, con inconsapevole indifferenza, «Èxpo» o «Expó»). Dopo il cosiddetto «secolo breve», che indubitabilmente si è chiuso, quello nuovo, che noi oggi viviamo, sempre più sembra rievocare la cultura del «lungo» Ottocento. Cultura d’élite, allora, che si cercava di divulgare con la moderna editoria “popolare”; oggi divenuta cultura di massa, con la trasformazione in cultura di vasto e facile intrattenimento.
Il caso darwiniano parrebbe confermare il dato storico. Nonostante le (brevi) discontinuità che la fama di Darwin ebbe dal 1859 in poi, è certo degno di nota che la sua lezione, decisiva tanto per le scienze naturali quanto per quelle filosofiche e umanistiche, anziché scemare, è andata sempre più rinnovandosi. Uno dei più importanti studiosi di letteratura anglosassone di età vittoriana, George Levine, ha recentemente indagato l’aura mitico-religiosa che ormai emana dalle immaginette-icone-santini del naturalista inglese: Darwin loves you, si legge sugli adesivi che circolano negli Stati Uniti, come a supplire la crisi delle confessioni religiose più consolidate. Lo stesso Levine ha rilanciato anche il valore letterario e culturale tout-court che rivestono oggi i capolavori darwiniani, pur concepiti per il panorama letterario e scientifico del secondo Ottocento.
La curiosità per la scrittura darwiniana non sembra quindi provenire all’autore de Il letterato Darwin dalla necessità di aggiungere un altro tassello al fin troppo ricco contrapporsi di schieramenti pro o anti Darwin. Si evidenzia, piuttosto, la volontà di tratteggiare — con gli strumenti interpretativi della storia culturale e della stilistica — i lineamenti del rinnovato interesse per un Darwin non tanto apostolo di una nuova religione della scienza, quanto padre di una tradizione del dialogo fra culture, umanistiche e scientifiche. Un dialogo che, tra l’altro, potrebbe riuscire oggi quanto mai fecondo, visti gli esiti insoddisfacenti della ormai obsoleta divisione fra le «due culture».
Evidentemente, la curiosità non poteva che condurre Stefano Bertani, di formazione storica e letteraria, a cercare di comprendere lo stile di quell’incomparabile scrittore di best sellers internazionali che fu appunto l’umanista Darwin, per provare a comprendere l’intima unione che in quelle opere ancora permane fra esattezza scientifica e fedeltà dei linguaggi umanistico-letterari.
Come ben ricorda l’autore, nei primi decenni del secolo scorso il celebre poeta russo Osip Mandel’štam, prima di terminare i suoi giorni in un campo di lavoro staliniano, era tornato insistentemente a riflettere sui capolavori scientifici di Darwin: «Nessuno riuscirà a divulgare le teorie di Darwin meglio di lui stesso», egli sosteneva; tuttavia, per comprenderle, sarebbe stato «indispensabile studiare il suo stile letterario».
Con la scrittura dei capolavori scientifici, l’umanista Darwin non pare infatti aver elaborato solo un formidabile metodo argomentativo, quanto piuttosto aver inventato uno stile letterario capace di offrire ai lettori di ogni tempo il significato delle scoperte scientifiche non nella loro formularia astrattezza, bensì facendo esperienza estetica concreta, sensibile, di quelle leggi che governano la natura. Il libro è volto quindi principalmente a mostrare la dimensione estetica, linguistica e la particolare scrittura retorica con cui Darwin compose i suoi libri, che non fu solo uno strumento per divulgare le nuove teorie, ma parte costitutiva della sua ratioscientifica, strettamente legata al metodo di ricerca e all’idea di scienza che egli praticava: dal minimo dettaglio delle scelte lessicali, del registro, della sintassi e dei suoi connettivi, dei modi dell’argomentazione, delle immagini e dei dialoghi, della disposizione retorica dei capitoli, sino alle varianti delle edizioni in continuo accrescimento, per arrivare addirittura alla complessiva composizione di tutte insieme le sue opere maggiori. A tutti i livelli della composizione, Darwin sembra rivelarci un unico, dominante criterio di conoscenza, quello dell’inclusione di molteplici prospettive di ricerca. Un vero e proprio principio inclusivo sembra infatti dominare il suo modo di vedere il mondo, sempre in equilibrio fra bellezza e verità, che reciprocamente cercano di trovare nel linguaggio umano una loro adeguata relazione.
Lo studio dunque convince dell’esistenza di uno specialissimo stile letterario darwiniano, che non solo può affascinare come documento nella sua distanza storica, ma anche per la sfida che rivolge a noi (post) post-moderni, alla ricerca di un metodo per sanare le troppe cesure in cui oggi vivono, nel conflitto o piuttosto nell’indifferenza, le nostre culture. Si tratta dunque, come vi si legge, anche di «un invito a rinnovare la lettura delle due maggiori opere di Darwin secondo una nuova prospettiva letteraria, con l’ausilio delle prime, splendide traduzioni dei naturalisti italiani dell’Ottocento». Il lettore italiano potrà così meglio partecipare all’esperienza conoscitiva ed estetica di «meraviglia» che Darwin «introdusse nella storia naturale non meno che nella storia intellettuale e letteraria dell’Occidente».