Fatti vivo (Marietti, 2015) è la terza prova letteraria di Alberto Reggiori, dopo le prime due ricche di memorie di un’Africa che non manca di fare capolino fra le pagine di questo libro, anche se qui la storia è un’altra.
Dei tre, questo è sicuramente il testo più personale, più sofferto, più maturo, anche come scrittura. Chi leggerà questo libro lo farà certo “tutto d’un fiato”, tanto Reggiori è capace di farci appassionare e immedesimare, più che in un romanzo d’avventura.
E di un’avventura si tratta, di una porzione fondamentale della propria vita e di quella della propria famiglia, sconquassata nel cuore di una notte di maggio del 2007 dalla notizia che il terzogenito, Giulio, diciottenne, si era schiantato in auto contro un pilone: un coma protratto per due mesi, sei interventi chirurgici, nove mesi in istituto di recupero, una lunghissima riabilitazione non ancora conclusa.
Il diario di un lungo calvario di angosce ed inquietudini, interrogativi e speranze, preghiere e stupori, sorrisi e lacrime che sembrano paralizzare e dell’abbraccio di tanti amici che aiutano a sostenere la fatica delle giornate. Un via crucis, alla fine della quale non c’è la morte — né del corpo né dell’anima —, ma una resurrezione donata.
Una storia di drammi e miracoli, di un figlio ritrovato quando si temeva di averlo perduto. Una storia di chi, domandando, ha sfidato, si è affidato.
Il tutto in 23 capitoli e nella forma di una lunga, affettuosissima lettera al figlio, quasi la confessione di una paternità, fatta di trepidazione e di domande, cui il Mistero, dentro un accadimento dolorosamente inatteso, ha dato una risposta, non meno inattesa.
Lo stile è quello che già conosciamo, agile, sicuro, piacevole, come è Alberto, persona ironica e sensibile, e perciò drammatica. Il libro presenta varie tonalità: pagine sofferte, ma anche pagine ricche di umorismo, di divertita complicità, specie quelle che descrivono momenti di nuova vita fra il papà e il suo piccolo grande figlio, entrambi dotati di un’innata simpatia.
E così, dopo immagini crude e dure, si può trovare la battuta divertente e divertita, che strappa il sorriso, quasi Reggiori ci dicesse che non dobbiamo prendere troppo sul serio il nostro modo di vedere le cose. Troppo è ciò che ci sfugge.
Una prosa efficace, con immagini fulminee alternate a narrazioni ampie e pacate, un periodare non di rado intessuto di autentica poesia, che si fa anche delicatamente struggente. Come struggente è il 17° capitolo, quello in cui Alberto spiega all’incredulo Giulio, da poco nuovamente consapevole, cosa gli sia accaduto, quattro mesi prima…
Il libro si conclude con il capitolo che più sorprende, una sorta di biblica chiave di lettura dell’intera vicenda, e dell’esistenza, con cui Reggiori si congeda dal lettore, facendolo partecipe di una rilettura della vita, a cui, senza dirlo, sembra invitare ciascuno di noi.