Alessandro Baricco torna a raccogliere articoli apparsi su periodici e quotidiani che parlano del nostro tempo, dai grandi episodi di cronaca, come il crollo delle Torri Gemelle, le storie di artisti, libri, opere d’arte, le discussioni politiche e culturali, come quella sui fondi pubblici alla cultura. Il libro si intitola Il nuovo Barnum (Feltrinelli), perché è il nome della rubrica con cui l’autore iniziò questo tipo di scrittura, e perché, per sua stessa ammissione, “il mondo mi sembrava allora un festivo spettacolo di freaks, pistoleri e illusionisti”.
Si tratta di una lettura piacevole, a tratti addirittura divertente. Questo lo dico senz’ironia alcuna, perché lo ritengo un pregio autentico, forse il miglior pregio di Baricco scrittore: la simpatia. In questo senso, sia come narratore che come opinionista (chiamiamolo così, non so se gli piacerebbe), Baricco ha quasi inventato un nuovo genere, tremendamente accattivante anche per chi non ha familiarità con la lettura. In un mondo come quello della letteratura italiana tuttora sospeso tra accademismi e sperimentalismi bislacchi da una parte e imitazione di stili stranieri, prevalentemente di quello anglosassone, dall’altra, è una gran cosa. Alcune sue opere, in primo luogo quel gioiellino che è Novecento, potrebbero essere proficuamente lette agli studenti, a iniziare dalla scuola media. Il suo contributo allo svecchiamento è notevole.
L’altro gran pregio di Baricco è la capacità affabulatoria. In questi articoli è spesso evidente. Quando prende una vicenda, una esperienza umana e ne racconta la storia, fa rimanere a bocca aperta. Si veda l’articolo esemplare sulla vita di Vivian Maier, la tata di Chicago che è stata in incognito uno dei più grandi fotografi del Novecento, scoperta per caso solo dopo la sua morte. Anche quando va in televisione, Baricco ha questo grande fascino di attrarre all’ascolto: forse gli insegnanti potrebbero avere giovamento dall’imitarne lo stile.
Alcuni difetti si accompagnano nel libro a questi pregi indubbi. Innanzitutto il pensiero di Baricco non è mai eccessivamente profondo. E questo può starci, ad un narratore non possiamo chiedere il passo del filosofo e, nell’articolo dedicato al maestro Vattimo, Baricco stesso lo riconosce implicitamente.
Ma il difetto del suo pensiero è che certe volte la genialità di una posizione, di un giudizio, di un’idea sembra eccessivamente cercata, tirata per i capelli, affettata. Si veda ad esempio l’articolo sulle Torri Gemelle, su quell’idea di nuova guerra senza confini definiti: può darsi che Baricco l’abbia detta tra i primi, ma è troppo insistita e non poi così geniale. Soprattutto senza approfondimento: si pensi a coloro che hanno scritto sul mondo senza confini, aldilà della guerra, sull’idea di confine, perfino sull’utilità di esso come custodia delle diversità. Categorie che sembrano troppo alte per Baricco.
Oppure dell’articolo sulla morte e i funerali di Giovanni Paolo II la cui eccessiva esposizione mediatica ha “stancato” Baricco e tanti suoi amici, ed è come se quella stanchezza fosse di tutti. Baricco arriva a sottintendere che i milioni di fedeli che si sono recati alla veglia funebre e al funerale del papa l’abbiano fatto spinti dalla pubblicità televisiva data all’evento. Questa è una sciocchezza, anche un po’ offensiva. Ma chi ha poi stancato la notizia? I suoi, quelli di Baricco, che sappiamo chi sono perché l’autore stesso ce lo dice più di una volta: la sinistra, “la mia parte” ripete.
Insomma Baricco assomiglia un po’ troppo a quegli scrittori di corte, dei secoli andati, Ariosto, Tasso tra i migliori, i quali, non avendo altro pubblico, sviolinavano il signore di turno perché li mantenesse (per non perdere il privilegio di essere invitati da Fazio, si direbbe oggi, il motore di vendita di libri più potente d’Italia). E quando Baricco osa qualche concetto controcorrente, non particolarmente rivoluzionario in verità, sull’uso dei fondi pubblici, ammette: “La cautela strategica ha ucciso fin troppe idee, nella sinistra, in questi anni. Abbiamo idee, soluzioni, visioni, ma non è mai il giorno giusto per dirle a voce alta” (“Il teatro del fondi pubblici 2”). È un vizio atavico dell’intellettuale di sinistra: pensare che i problemi interni siano affari di tutt’Italia. Invece può anche esserci qualcuno, tipo il sottoscritto, che di fronte a questo dibattito interno alla sinistra, al Pci, al Pd o a come diavolo si sono chiamati negli anni, sciorinato su giornali sedicenti indipendenti (tipo Repubblica) reagisca con un “e a me cosa importa?” (versione educata). Delle convulsioni della sinistra proprio nulla; delle sue divisioni interne non appena va al potere, come accade in queste settimane, e di cui ammorbano il dibattito politico italiano, neppure.
E allora perché il Baricco ce ne parla? Mistero. Sospetto. Questo mettere le mani avanti col classico “io sono di sinistra” non appena si abbozza un pensiero minimamente divergente potrebbe rivelare che tutta la sbandierata libertà di idee e visioni e soluzioni nella sinistra italiana non sia affatto scontata…