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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Salgari, il “suicidio” del positivismo

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LETTURE/ Salgari, il “suicidio” del positivismo

Domenico Bilotti
Pubblicato 3 Ottobre 2016
parigi_torreeiffelR439

Sventato attacco a Parigi (LaPresse)

Gli affascinanti racconti di Emilio Salgari come spia di un'epoca che tenta di uscire, con i suoi soli mezzi, dalla crisi nella quale è sprofondata. Senza riuscirci. DOMENICO BILOTTI

Difficile collocare Emilio Salgari dal punto di vista socio-culturale. Nella memoria collettiva, è il creatore di Sandokan e di romanzi che hanno segnato l’immaginario giovanile ben prima che quegli stessi romanzi divenissero la base per sceneggiati di ogni fattura. Nella critica letteraria, a parte la prolificità quasi sconfinata e l’avere tentato l’innesto nella narrativa italiana di motivi del romanzo d’avventura e, persino, di fantascienza, si tende a salvare poco o, peggio, ad obliare tutto. Nella dimensione biografica e storiografica, Salgari è il paladino dello sdegno: il suicida che muore destinando una silente maledizione ai numerosi editori che si sono avvalsi del suo talento per aprirsi mercato, non dando allo scrittore — spesso pesantemente indebitato — adeguati compensi. 


LETTURE/ Giovenale, la satira non umilia nessuno ma aiuta il potere a correggersi


A poco servì il tributo prettamente onorifico della Casa Reale nel 1897 o la notorietà tale da alimentare, per almeno tre decenni, una generazioni di apocrifi salgariani che, con ambientazioni e personaggi simili, ma esiti stilistici meno convincenti, proseguirono il filo conduttore tipico della narrativa dello scrittore veronese. 


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Quello che colpisce, però, è che tutta la produzione salgariana sembra permeata da tematiche tipicamente proprie di una fase cruciale del XIX secolo: quella in cui il positivismo fino ad allora imperante e trionfalistico comincia a mietere le prime vittime. Vittime di tutte le forme e di tutti i colori: sono gli sconfitti degli imperi coloniali, semischiavizzati da potentati onnivori di materie prime; sono gli animatori culturali e del circuito delle riviste, un mondo che già svela le proprie miserie umane e materiali; sono quelli in nome dei quali si decide di passare dalla parte sbagliata della Storia. 


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In ogni ciclo di romanzi salgariani, l’amicizia gioca un ruolo fondamentale. E’ forse amicizia declinata in modo rude, quasi cameratesco, avventuroso; non è la fraternità comunarda dell’utopia socialista e libertaria, anzi è un’amicizia che spesso riconosce valori e codici militari, tradizionali, marcatamente pregiuridici. Empatia e combattimento, acume e affetto, questo unisce, per fare l’esempio più celebre, Yanez e Sandokan. 

Accanto all’amicizia, c’è ancora la forza dell’amore romantico, spogliato però dall’afflato fideistico di inizio secolo. E’ un sentimento prevalentemente individuale, isolato dalla metafisica e dalla teologia, ma che si nutre di una sua vocazione all’eternità: resiste ai rapimenti, alle gelosie e agli avversari. 

C’è, finanche inconsapevolmente, nel Salgari dei romanzi d’avventura, il più celebre, pure spazio per un’infatuazione tipicamente tardo-ottocentesca per l’esotismo. Questo esotismo non si basa sul sovvertimento delle categorie tradizionali, ma sul tentativo di dare agli indigeni di ogni Borneo il proprio spazio d’azione e, conseguentemente, la propria voce nel mare tortuoso delle avventure tra briganti e pirati. Un teatro, però, concesso sempre nel cono dell’osservatore occidentale, così come faceva in quegli stessi anni la pittura di tematica coloniale.  

Intenerisce, poi, che Salgari fosse nella pratica quasi del tutto all’oscuro dei posti e degli spazi che descriveva, con pochi tratti vividi che esaltavano il lato più fresco della nascente narrativa economica di massa. Lavorava in biblioteca, studiava e ancor più spesso intuiva dettagli, li riportava, li adattava alla storia ma senza far loro perdere quella traccia di credibilità che sta alla base di ogni autentico patto narrativo tra scrittore e lettore. 

Affligge infine la famiglia Salgari la condanna al suicidio di molti suoi membri maschi — ivi compreso il padre dello scrittore e due figli. Suicidi spesso frutto di disperazione e di paure ancor più disperanti: la malattia, la miseria, forse persino l’anonimato e la difficoltà a guardare i propri punti deboli, le proprie sconfitte e i propri dilemmi interiori. L’altrove cercato e vagheggiato nel mondo lontano era eguale e contrario all’altrove che non si voleva riconoscere in se stessi. Mentre Salgari si suicida, nel 1911, vediamo i falsi miti di un’intera generazione impiccarsi senza ira né strepito. Le illusioni della civilizzazione unilaterale, scientifica e positivistica, progressiva, si spezzeranno tre volte in tre decenni: la Grande Guerra, la crisi economica e politica degli anni Venti e Trenta, l’abominio dell’Olocausto. Nessun eroe olivastro salì sulla nave a salvare il mondo. 


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