Nel dicembre 1934 il settimanale ebraico tedesco Jüdische Rundschau pubblica un intervento intitolato “Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte”, a firma di Walter Benjamin. L’intellettuale tedesco (definizione quanto mai limitante rispetto alla poliedricità e alla genialità del suo pensiero) è in una fase della sua vita travagliata che lo vede virare, dopo essersi dibattuto a lungo fra il polo del sionismo e quello del marxismo, con una certa decisione verso il secondo.
È una scelta dovuta in gran parte ai rapporti sempre più stretti con Bertolt Brecht, e che incrinerà l’amicizia con personaggi di spicco del pensiero ebraico come Gershom Scholem e Max Rychner. In realtà quel che caratterizza il percorso intellettuale di Benjamin in questo periodo è un profondo senso di dilazione, al quale egli si abbandona consapevolmente, in altre parole l’incapacità di scegliere definitivamente fra marxismo e teologia ebraica. Benjamin stesso, in una lettera a Scholem del maggio del 1934, dice di non voler essere costretto nell’alternativa fra pensiero metafisico e politica comunista, ma di voler scegliere all’interno di essa.
Questa sorta di continuo rinvio, di incompiutezza è proprio uno dei tratti che permettono a Benjamin di confrontarsi con Kafka e con la sua vicenda biografica e intellettuale. Insieme, ovviamente, alle comuni origini ebraiche. Kafka non è un pretesto per un saggio di teoria della letteratura (come potrebbe essere Leskov nel saggio benjaminiano sulla narrazione), ma una vera e propria pietra di paragone, un incontro mancato o piuttosto un incontro a metà strada, condotto quasi sulla base di una rivelata “affinità elettiva”. Benjamin offre una magnifica esemplificazione pratica delle sue teorie letterarie, mostrando cosa voglia dire “lottare con le opere”, e cosa significhi l’assunto per cui “non si tratta di presentare le opere della letteratura nel contesto del loro tempo, ma di presentare, nel tempo in cui sorsero, il tempo che le conosce, cioè il nostro” (Storia della letteratura e scienza della letteratura).
Le riflessioni del saggio del 1934 (leggibile in italiano nella preziosa silloge Angelus Novus, uscita per Einaudi a cura di Renato Solmi nel 1962 e più volte rieditata) sono frutto di un lavoro intellettuale durato circa dieci anni, e approfondito nel confronto serrato con i più grandi protagonisti del panorama culturale tedesco degli anni Trenta: seguendo la felice espressione di Hans Mayer, in quegli anni si delineò una sorta di Convegno su Kafka, con gli interventi di Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Bertolt Brecht, Werner Kraft e Gershom Scholem.
Il testo presenta una non lieve difficoltà di lettura: il percorso è spesso disarticolato, le citazioni a volte oscure, e certe affermazioni estremamente sintetiche e quindi fraintendibili. Eppure, non si può non notare una certa coesione di fondo, che rimane come una sensazione alla fine della lettura: quasi che il montaggio complesso di materiali diversissimi tra loro ci abbia condotto, senza possibilità di spiegare in che modo e senza poter ripercorrere all’indietro il percorso, ad una unità nuova e verso il nucleo profondo del saggio.
In questo processo una parte essenziale riveste il meccanismo della citazione. Delle citazioni del saggio su Kafka si potrebbe dire quanto Benjamin stesso scrive in Einbahnstrasse: “Le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante”. I tipi di citazioni sono i più disparati: appaiono episodi dei quali non è detto l’autore, nemmeno quando gode di grande notorietà, così da accrescere il senso di estraniamento dalla loro origine; ci sono autocitazioni; ci sono citazioni minori da autori dei quali si sarebbe potuto utilizzare ben altro (si vedano gli esempi di periodi tratti da Rosenzweig); ma soprattutto, ci sono le citazioni di Kafka, che vanno dal Castello al Processo, passando per i Racconti e per scritti minori, ma che sembrano totalmente avulse dal contesto originario, che non è necessario conoscere a fondo per comprenderle nella loro funzionalità interna al saggio benjaminiano.
Benjamin introduce il suo intervento a partire dal mondo dei funzionari, nel quale si muove il prototipo dei personaggi kafkiani, il protagonista del Processo e del Castello: un mondo mitico, termine che nell’orizzonte di Benjamin indica il dominio violento (del potere potremmo dire, usando un vocabolo non prettamente benjaminiano) che genera come conseguenza un sistema giuridico, il diritto.
Ma questo è solo un punto di partenza per arrivare al vero cuore del saggio, che possiamo identificare nella perdita della Tradizione. “Come Lukàcs pensa per epoche, così Kafka pensa per ere” secondo Benjamin, ed è per questo che si può dire che “il mondo del mito […] è infinitamente più giovane del mondo di Kafka”. Detto altrimenti, dietro la nebbia che si stende sull’orizzonte del mondo pervaso dal dominio mitico del potere c’è un altro mondo, che giace inconoscibile: di esso il mondo del mito moderno, il mondo dei padri e dei funzionari di Kafka, non è altro che un residuo, quasi privo della sua origine e del suo significato. Padri e funzionari si trovano così gravati da una responsabilità di cui non sanno rendere conto, inseriti in un ordine che li costringe, non si capisce se loro malgrado, a diventare accusatori e giudici, tesi a recuperare un’autorità ormai in declino che unica potrebbe essere, oltre che strumento di oppressione, occasione tuttavia di “rianimare e rendere fecondo l’antichissimo rapporto padre-figlio”.
Qualcosa è andato perduto. È inevitabile per Benjamin risalire al nucleo della tradizione viva dell’ebraismo, la Torah. Le parabole di Kafka infatti, secondo Benjamin, sono per la Tradizione quello che l’Haggadah è per l’Halacha, e cioè rispettivamente la manifestazione mistico-poetica e narrativa della Legge, e la Dottrina, la dogmatica vera e propria (che nell’ottica ebraica non è mai riducibile al semplice concetto di legge, ma rappresenta il punto di rapporto dell’uomo con Dio). Eppure oggi, nel mondo di Kafka (e nel nostro) la Dottrina sembra assente.
È impossibile, per Benjamin, “penetrare anche uno solo dei motivi che affiorano nelle sue [di Kafka] storie e nei suoi romanzi. Ma solo essi ci possono dare qualche lume sulle forze preistoriche da cui è stata impegnata l’attività di Kafka; e che pure si possono considerare, allo stesso titolo, come potenze storiche dei nostri giorni. Chi dirà sotto quale nome sono apparse a Kafka? Certo è che egli non ha saputo raccapezzarvisi; che non le ha conosciute; che ha solo visto apparire, nello specchio che la preistoria gli presentava nella forma della colpa, l’avvenire nella forma del giudizio. Ma come questo giudizio si debba intendere (non è esso l’ultimo, l’universale? Non fa del giudice l’accusato? Il procedimento stesso non è il castigo?), a tutto questo Kafka non ha dato risposta”. Il legame con la Tradizione è rotto, e davanti a Kafka appare un mondo pervaso da forze delle quali non è possibile dire nulla. La violenza mitica fa leva sulla pena come sua unica, vuota forma di giustificazione; ma la violenza divina, che alla domanda “Posso uccidere?” risponde immutabile con il comandamento “Tu non ucciderai”, è prima dell’azione, incommensurabile ad essa, non è più criterio di giudizio dopo la perdita della Tradizione ma semplice “norma dell’azione per la persona o comunità agente, che devono fare i conti con essa in solitudine, e assumersi, in casi straordinari, la responsabilità di prescindere da essa” (Per la critica della violenza).
La situazione dell’uomo Kafka e dei suoi protagonisti, letti da Benjamin, assomiglia drammaticamente a quella dell’uomo contemporaneo, erede di una Tradizione ormai non interpretabile per lui, tramandata attraverso ordinamenti a volte incomprensibili e che rischia trasformarsi in qualcosa contro cui lottare, pena il soccombere di fronte ad essa. Benjamin afferma peraltro che esiste, nelle opere di Kafka, una possibilità di liberazione (non è possibile vederla in questa sede, ma è l’occasione per rinviare alla lettura integrale del saggio); ed esistono dei personaggi nei romanzi, quasi venuti da un altro mondo, che fanno intravedere una tenue speranza (gli aiutanti, li chiama Benjamin); ma è innegabile che su tutta l’opera di Kafka, anche nella lettura di Walter Benjamin, gravi il giudizio dato dallo scrittore praghese all’amico Max Brod e riferito da quest’ultimo, che Benjamin stesso riporta: “‘Noi siamo — egli disse — pensieri nichilistici, pensieri di suicidio, che affiorano nella mente di Dio’. Ciò dapprima mi fece pensare alla visione del mondo della gnosi … […] ‘Oh no’ egli disse, ‘il nostro mondo è solo un cattivo umore di Dio, una cattiva giornata’. ‘Al di fuori di questa manifestazione, di questo mondo che non conosciamo, ci sarebbe quindi speranza?’. Egli sorrise: ‘Oh certo, molta speranza, infinita speranza, ma non per noi'”.
È il grido disperato di significato di un “genio” umano, Franz Kafka, che un altro “genio”, Walter Benjamin, riconosce, raccoglie e rilancia a ciascuno di noi.