“Stava bene sul letto: con gli occhi chiusi”: una dichiarazione di poetica, questa di Federigo Tozzi, un lascito che vale la pena riconsiderare per orientarsi nel nostro presente. Conficcata al centro del romanzo di spunto autobiografico, Con gli occhi chiusi, pubblicato nel 1919, come tutte le poetiche incarna un approccio alla vita, un modo di procedere nel mondo; ma che, nel caso specifico, per realizzarsi prevede paradossalmente il suo contrario: un’esclusione del e dal mondo.
Come i bambini nei loro primi anni di vita — per far sparire il mondo e loro stessi basta chiudere gli occhi: e non si vede, e non si è più visti —, così Pietro Rosi, il protagonista, del quale si ripercorre l’avventura umana dalla nascita fino al crollo dell’illusione amorosa, poco più che ventenne. Figlio di Domenico, rude e autoritario, e Anna, che lo ama di un “affetto superstizioso” perché unico figlio a sopravvivere dopo sette, morti l’uno dopo l’altro appena tolti alla balia, Pietro trascina la sua indolente adolescenza tra la trattoria di famiglia a Siena e il podere di Poggio ‘a meli. A scuola è il più grande e il meno bravo: incapace di udire la voce dell’insegnante anche quando tutti tacciono; incapace di mettersi a studiare; “stanco sfinito; senza aver fatto nulla”, irrimediabilmente magnetizzato dal proprio interno, dalla sua anima “piena di occhi chiusi” (così lo scrittore nella precedente raccolta poetica Barche capovolte).
Si innamora, leopardianamente, della nipote di Giacco e Masa, coppia di salariati della famiglia Rosi, Ghìsola (Isola nella vita del diciottenne Tozzi). Tutto viene calamitato, finalmente calamitato, dagli occhi di lei, quegli occhi neri come “due olive che si riconoscono subito nella rama, perché sono le più belle”; occhi di fronte ai quali pare ricompattarsi l’io frammentato di Pietro. Le strade dei due si inerpicano su sentieri momentaneamente divergenti: l’una, nella sua lascività nascente e crescente, perseguendo un ingenuo e incerto convincimento di giungere a vivere, attraverso lo spregiudicato e voluttuoso uso del proprio corpo, una vita col segno più davanti; l’altro con “quella sua vita interiore che si sovrapponeva sempre!”, diventando, essa, la quotidiana dimensione con cui rapportarsi, con il reale divenuto sfondo via via più pallido.
L’irrimediabile disagio di esistere di Pietro si esplica da un lato con un eccesso del tempo del rimpianto; la sua giovane vita è tutta un condizionale passato: “avrebbe obbedito se fosse stato più desto”, “avrebbe voluto che nessuno fosse stato lì”, “avrebbe dovuto imparare le sue lezioni”; dall’altro con una vera e propria bulimia immaginativa: entrato nel Partito Socialista, “sognava processi, martirii, conferenze ed anche la rivoluzione”; speranzoso, poi, di diventar pittore “si confortava, sognando un’esistenza nuova e insolita. Ma quando? Talvolta, essa si riperdeva; ed egli non riesciva né meno a capire come l’avesse sognata”. Sogni e ambizioni la cui realizzazione appare imminente, ma non accade mai.
Solo Ghìsola gli si impone come paesaggio di felicità possibile, rinnovatrice di un’esistenza vacua, volto da cui far dipendere l’agognata svolta di un cammino stanco a soli vent’anni. Nonostante l’inafferrabilità dei sentimenti di lei, Pietro la attende, la insegue, la chiede in sposa. Sempre, tuttavia, oscillando tra la sorpresa di amarla e il sospetto che non sia così: “si accorse che era innamorato di Ghìsola; […] se ne fosse stato più sicuro, l’avrebbe detto subito a Masa”, “la sensazione d’averla trovata soltanto e di non amarla cresceva”, ma poi un palpito di cuore, uno struggimento d’essere compreso, e di nuovo alto e splendente il sogno amoroso.
Fino a quando la realtà non preme, violenta. Come sa essere dirompente la realtà, tanto più ci si è provati a ostruirla. Pietro riceve una lettera anonima che attesta il tradimento di Ghìsola e lo invita a verificare di persona, in via della Pergola. Vede il suo ventre. Gravido. “Quando si riebbe dalla vertigine violenta […], egli non l’amava più”. Così si disfa l’illusione amorosa di fronte a una presenza troppo presente.
Quanto struggimento (quanta poesia!) in questa incapacità ad essere quello che pur si sente come promessa per il solo fatto di essere vivi. Vien da pregare chiuso questo libro. Da pregare che il reale sia così reale da diradare le immagini. Ma senza violenza, ché non abbia a spaventare troppo. Con delicatezza di madre, che afferra la mano del proprio figlio e la scansa, piano: “Guarda, apri gli occhi”.