“Signore, ti ho dato già tutto, non mi resta più niente“.
“Dammi i tuoi peccati, Girolamo, perché io possa avere la gioia di perdonarli ancora“.
Se così si può dire, quando Inoue il magistrato discute con padre Rodrigues per l’ultima volta, al termine di Silenzio, il romanzo di Shusaku Endo edito in Italia da Corbaccio, probabilmente non conosce l’aneddoto tratto dalla vita di San Girolamo sul dialogo tra il santo e il Bambino Gesù.
Questo però non toglie la malizia contenuta nella sua distinzione tra la misericordia del Budda, nella quale la debolezza dell’uomo si affida solo a Dio, e quella cristiana, che — afferma citando un altro gesuita — prevede invece che il fedele serbi “con tutte le proprie forze la fermezza dell’animo“; una distinzione che provoca quanti si ritrovano oggi a leggere le pagine del libro (o a vedere il film di Scorsese tratto da esso) a una contrapposizione irrimediabile tra quella che sarebbe la giusta dottrina della pietà divina e una sorta di “misericordia assoluta”, che non chiederebbe invece condizioni e non avrebbe bisogno della partecipazione dell’uomo.
A ben vedere si tratta esattamente di quella suddivisione tra cristiani forti e deboli, capaci di martirio e invece apostati, che corre per tutto il libro, impastoiando in una contraddizione insanabile lo stesso giovane gesuita protagonista della storia; dove questa distinzione sarebbe anche l’unica verifica della propria fede e della sua utilità per gli altri.
Ma come si capisce bene dal racconto di Natale di San Girolamo, la partecipazione dell’uomo all’azione misericordiosa di Dio non risiede in qualche capacità eroica e sta invece tutta nella relazione affettuosa con quel Bambino. Accettare la misericordia di Dio è accettare la propria condizione, i propri peccati, offrirli a chi può “perdonarli ancora“; e questa è esattamente “la fermezza” e la collaborazione che Egli chiede. Proprio quello che Giuda, tante volte ricordato nel libro di Endo, non riesce a fare.
In fondo Silenzio è una storia di orgoglio. Esso infatti mette a tema la possibilità o meno che anche il peccato più grande, come il tradimento, possa essere perdonato. O, più precisamente, come accada che la Grazia sia efficace.
Da questo punto di vista la riprovazione che esso provoca è la stessa di sempre, quella per il cristiano che dovrebbe essere il migliore di tutti, specie quando vuole convertire gli altri alla propria fede e invece dimostra di non essere all’altezza di quanto proclama.
Ma questo è proprio il “paradosso cristiano“, come lo chiama Graham Greene, “l’onnipotente, universale coesistenza del male e del bene, di Dio e della sua ombra, e della tentazione nel deserto, che, come l’ultima cena, è divenuta un sacramento perenne nella vita dell’uomo“.
Una citazione giustificata anche dalle somiglianze nell’atmosfera e nei toni tra il libro di Endo e quelli di Greene, in particolare Il potere e la gloria. Fino allo stesso uso del canto del gallo come chiusura delle scene, esattamente parallele, dei due preti in prigione.
Ma la notte in carcere, nella quale padre Rodrigues, incalzato dall’apostata padre Ferreira, prende la propria decisione, non è la chiave di volta su cui si regge la storia raccontata da Endo. Tanto che al lettore, oltre al già citato Greene, si apre un nuovo rimando, questa volta a Flannery O’Connor, non a caso un’altra tra i grandi narratori del paradosso cristiano o, come lo chiama lei, del “territorio del diavolo“.c
Nel romanzo di Endo, come nei racconti della scrittrice americana, si riconoscono infatti tre fasi successive ben distinte.
Così, nella prima parte del libro, viene mostrato un mondo fondato sulle certezze dei protagonisti, una quotidianità costruita intorno a queste loro convinzioni e che nessun segnale o accadimento, anche penoso, riesce a scalfire; ed è impossibile non riconoscere soprattutto un orgoglio umano, e un individualismo quasi esasperato, dietro la scelta dei due gesuiti di raggiungere il Giappone a tutti i costi.
A costituire la fase successiva, il già citato episodio della prigione, un evento decisivo anche se non conclusivo, che costringe Rodrigues a ripensare sé stesso e le proprie scelte, lasciandolo in una solitudine indicibile.
L’evento centrale del libro — e anche sua ultima fase — si svolge quasi al termine della storia, almeno di quella raccontata e conoscibile (e anche questo è significativo). Come nella parabola del figliol prodigo, la carestia mandata da Dio fa decidere al figlio maggiore di ritornare da suo padre; come gli eventi più disparati e anche violenti nei racconti della O’Connor mettono la libertà dei suoi protagonisti di fronte a una scelta decisiva, così la grazia di Cristo si rivela infine a padre Rodrigues, quasi gli calasse un velo dagli occhi, sotto le fattezze sporche e maleodoranti di Kishiro, un mendicante che fin dal suo sbarco in Giappone continua a seguirlo, soprattutto chiedendogli di continuo, quasi ossessivamente, di perdonarlo per i tanti peccati, il tradimento e la propria debolezza.
Ed è lui che, per l’ennesima volta, ripropone la questione dei forti e dei deboli nella fede: cosa potranno fare quelli che non sono eroi, quelli che non sono santi?
Così padre Rodrigues, che non è un santo, nell’orrore che gli suscita quell’uomo che continua a commettere i peccati più disprezzabili e, allo stesso tempo, non smette di cercare qualcuno che lo perdoni di nuovo, e pur al prezzo di qualsiasi umiliazione, infine riconosce l’offerta della grazia divina.
Ma come direbbe Greene, la storia di Endo non semplifica e non scioglie, neppure a questo punto, il paradosso dell’esistenza del male e del bene insieme, non distingue in modo definitivo le cose “cattive” da quelle “buone”. E lascia solo intravedere lo spazio che la libertà di un uomo ha, sempre, di rispondere a Dio.