Una sfida che si pregusta memorabile. Una sfida che è anche un atto d’amore: ai suoi autori, ma anche alla sua città. Da stasera al 12 marzo Fabrizio Gifuni, indubbiamente tra i più importanti attori che la scena italiana riserva, si dà al pubblico del Teatro Vascello di Roma per una maratona di dieci serate. Si inizia con Lo Straniero di Albert Camus, di cui quest’anno ricorre il sessantesimo dal premio Nobel, capolavoro di stile e ferocia per l’esattezza con cui, senza alcuno strepito, ci fa guardare dritto ne gli occhi il germe oscuro che può ingrassare, silenzioso, nel fondale di noi stessi fino al punto di occupare il nostro intero io: l’indifferenza. Questo il leitmotiv di Meursault, il protagonista: “in fondo per me era lo stesso”, “tutte le vite si equivalgono”, “la cosa mi era indifferente” e il terribile: “in quel momento ho pensato che si poteva sparare oppure non sparare e che una cosa valeva l’altra”.
Sarà poi il turno di Ragazzi di vita, il romanzo di esordio di Pier Paolo Pasolini (1955): un’imperterrita e nostalgica dichiarazione d’amore nei confronti dei suoi “pischelli”, il Riccetto, Alduccio, il Caciotta, tutti i giorni — e le notti — a scorrazzare la loro fame di vita tra viale dei Quattro Venti, Trastevere, via di Donna Olimpia, Ostia, il Tevere, l’Aniene; “borgatari”, la cui umanità brutale ma autentica è continuamente insidiata dal potere. Sempre da un esordio narrativo, anno 1954, ma per Gifuni un amore recente, nasce lo studio sul primo capitolo de Il dio di Roserio, racconto lungo di Giovanni Testori: nell’ambiente delle società ciclistiche dilettantesche, Dante Pessina e Sergio Consonni si danno battaglia a suon di pedalate e il primo, pedalando pedalando con un “Troia! Ralenta! Ralenta!” a mo’ di grido di guerra, pur di diventare il “dio di Roserio”, provoca la caduta rovinosa del rivale, Sergio, che resta demente: “Poi ho sentito una sterzata; poi, una frenata: m’è sembrato che la testa si spaccasse. Volevo dirgli qualche cosa, ma non sono stato capace”; il linguaggio, nuovo, arioso, espressionistico, “ruzzante”, e i piani narrativi caleidoscopicamente sovrapposti creano lo straordinario cortocircuito tra la vitale animalità che brucia i giovani testoriani e l’incaglio della lingua che non sa più trovare le parole. Chiude il ciclo l’omaggio ai due scrittori latino-americani Julio Cortázar e Roberto Bolaño e ai loro racconti tutti quotidianità e surrealtà, abisso e leggerezza.
Il titolo del percorso, L’autore e il suo doppio, suggerisce cosa Fabrizio Gifuni cerchi nella sua inesausta immersione nelle parole: la relazione con chi le ha vivificate, con il palpito che le ha nutrite e che si rivela, improvvisamente, a volte quasi per una svista, nelle maglie ben strette del testo. L’attore, dunque, come doppio dell’autore, cassa di risonanza delle corde vibranti della sua anima. E non v’è nulla di astratto nell’anima, come potremmo essere tentati di pensare con un sorriso di presunta furbizia, il sorriso di quando bolliamo come astratti e ingenui i reali motori del vivere.
È il latino a venirci in aiuto (eh sì, proprio lui, quel vecchione!, insieme al greco, all’ebraico…): anima indica anzitutto il fiato, il respiro. L’anima di un autore, il suo principio vitale, il suo pensiero, respira sempre attraverso una voce, una concretissima voce, anche quand’essa rimane chiusa nel silenzio del corpo. Ed è a questa essenzialità che ci riporta la drammaturgia di Fabrizio Gifuni: nel tempo dello spettacolo a ogni costo, del sovraffollamento visivo, egli si affida a quel che di più labile, ma anche di meno limitato, c’è nel corpo umano: la voce, la voce che è una restituzione di presenza. La parte più misteriosa del corpo, in grado di far vibrare in noi “qualcosa che ci dice che veramente non siamo più soli” (Jung).
Fabrizio Gifuni: L’autore e il suo doppio, dal 2 al 12 marzo 2017 dal martedì al sabato ore 21, domenica ore 18, Teatro Vascello (via Giacinto Carini, 78 – 00152 Roma, tel. 06 5881021/06 5898031, www.teatrovascello.it [email protected])