Il Premio Cesare Pavese, giunto alla sua XXXIII edizione, nel 2016 è stato assegnato, tra gli altri, a Franco Ferrarotti per il suo Al Santuario con Pavese- Storia di un’amicizia (Edizioni Dehoniane, Bologna). Decano dei sociologi italiani, Franco Ferrarotti, classe 1926, conobbe Pavese negli anni dell’esilio monferrino dello scrittore quando, subito dopo l’8 settembre 1943, si rifugiò dai Padri Somaschi presso il collegio Trevisio, a Casale Monferrato, per sfuggire alla persecuzione fascista. Vi rimase fino alla Liberazione, sotto falso nome, dedicandosi a studi e riflessioni. Lì conobbe padre Giovanni Baravalle, giovane e colto assistente spirituale del collegio, menzionato nel Mestiere di vivere, che ha raccontato, molti anni dopo, la sua amicizia con lo scrittore. Sono le atmosfere e gli avvenimenti rievocati nella Casa in collina, uno dei suoi libri più belli.
I diciotto mesi trascorsi in quei luoghi segneranno profondamente Pavese: si può affermare che da quel momento inizierà la fase più feconda della sua produzione, segnata da romanzi come La casa in collina, La luna e i falò, le prose dei Dialoghi con Leucò, i racconti e i saggi di Feria d’agosto. Inseguendo ricordi, riflessioni, studi maturati in quel periodo, Pavese lascerà gradualmente il fondo naturalistico delle opere precedenti, fin troppo segnate dall’influenza degli scrittori americani, di cui è stato finissimo traduttore, per far emergere sempre di più la spinta mitico-simbolica, dominante negli ultimi libri.
Diventerà sempre più chiara la vocazione e l’originalità di uno scrittore sul quale, per tanti anni, peserà l’opzione ideologica, in parte alimentata da Pavese stesso. Lo ha affermato bene Lorenzo Mondo, nel suo Quell’antico ragazzo: “il fuoco centrale della sua ispirazione, a tratti dissimulata, era l’interrogazione su libertà e destino, la speranza ostinata di dare un senso superiore alla vita”. A partire dagli anni ’43-44, in Pavese diventerà sempre più evidente che per comprendere la sua vocazione di uomo e di scrittore dovrà risalire all’infanzia, al fondo oscuro e rivelatore di tutte le cose. La ricerca del destino diventerà ricerca delle origini, ed è una ricerca che dovrà avvalersi degli studi sul mito. E il mito, ce lo conferma lo scrittore stesso ne Il mestiere di vivere, “è una scoperta di Crea, dei due inverni e dell’estate di Crea”. Egli comprende, sulla scia delle riflessioni su Vico, che il mito è all’origine dell’umanità, come l’infanzia è all’origine dell’individuo.
Il bel libro di Franco Ferrarotti ha il merito di riportare alla luce quel clima, con la freschezza di ricordi che riaffiorano intatti dopo lunghi anni. Leggiamo con la gioia dell’immedesimazione il ricordo delle passeggiate compiute dai due uomini lungo la ripida erta del santuario di Crea, dove capitava di incontrare piccoli villaggi, case sparse, qualche chiesetta tra i boschi. Erano, per Pavese, segni di una “presenza spirituale”, espressioni del bisogno di un conforto religioso che lo rese in gran parte estraneo alla cultura di quegli anni, in cui peraltro si riconosceva, almeno in parte. Delineando un interessante parallelo con Adriano Olivetti, Ferrarotti afferma che in Pavese “era sempre presente e nel fondo, misteriosamente operante, un sentimento religioso che lo rendeva estraneo allo storicismo ‘laicistico’ allora dominante e che lo spingeva invece allo studio dei grandi miti, archetipi strutturali, racconti metastorici, risposte criptiche alle pulsioni profonde che costituiscono l’uomo in società. Vico e Frazer al posto di Hegel, per non parlare dei suoi garruli italici nipotini”.
Emerge da queste pagine un Pavese autenticamente laico, cioè aperto a tutte le possibilità che la ragione gli spalanca davanti, molto lontano dai suoi compagni di strada, che spesso cercò vanamente di accattivarsi, per i quali rimase il sospetto che lo scrittore non fosse “un buon compagno”. L’interesse per il mito, e di conseguenza l’apertura al fatto religioso, resero Pavese inviso a tutti quei laicisti, bigotti del “libero pensiero”, storicisti che “si illudono di dirigere la storia, da stazione a stazione, con il loro fischietto, esorcizzando qualsiasi accidentalità irrazionale”, scrive lucidamente Ferrarotti. Coloro che escludono l’imprevisto e lo stupore dall’orizzonte della vita non potevano approvare la svolta dell’ultimo Pavese.
La testimonianze di quella svolta ci sono consegnate nel Mestiere di vivere. Si può dire che le idee di mito e di simbolo affiorino con maggiore chiarezza nella coscienza dello scrittore nel settembre del 1943. In una nota del diario parla della “consacrazione dei luoghi unici, legati a un fatto a una gesta a un evento. A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo. Poi vi sorgono nomi, santuari, aggettivi geografici. I luoghi dell’infanzia ritornano nella memoria a ciascuno consacrati allo stesso modo; in essi accaddero cose che li han resi unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico (non ancora poetico). Quest’unicità del luogo è parte, del resto, di quella generale unità del gesto e del fatto, assoluti e quindi simbolici, che costituisce il mito”.
Da qui in poi si può dire che la riflessione sul mito diventerà centrale in Pavese; sarà la nota dominante della sua poetica, che, senza escludere deviazioni e ripensamenti, lo condurrà alla composizione delle sue opere più grandi, secondo una linea che parte da Feria d’agosto e si conclude con La luna e i falò.
Tra i saggi di Feria d’agosto, spicca Del mito, del simbolo e d’altro, in cui lo scrittore si trova davanti a un “luogo sacro”, “sull’orlo del mistero”. Così tornano alla memoria i luoghi dell’infanzia, mitici per eccellenza, colorati di un “brivido simbolico”. Il mito è una norma, afferma Pavese, “lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione. Per questo avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo”. Se è fuori del tempo, esso si colloca contemporaneamente fuori dello spazio. Sta qui, nella sua unicità irripetibile, il nocciolo religioso del mito. Esso va inteso quindi come modulo supremo della realtà, tanto che le “vicende quotidiane acquistano senso e valore in quanto ne sono la ripetizione o il riflesso. Per questo valore esemplare “un mito è sempre simbolico”, e quindi “non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere nelle più diverse e molteplici fioriture. Esso è un evento unico, assoluto; un concentrato di potenza vitale da altre sfere che non la nostra vita quotidiana, e come tale versa un’aura di miracolo in tutto ciò che lo presuppone e gli somiglia”.
Particolarmente pertinenti ci appaiono le seguenti osservazioni contenute ne Il mito, saggio pubblicato sulla rivista cattolica “Cultura e realtà” pochi mesi prima della morte. Pavese riprende il filosofo a lui congeniale, Vico, colui che invitò a guardare il fascino dei giorni primi, definendo i primi uomini “fanciulli del genere umano”, paragonando il vero poetico al vero metafisico. Fu lui a definire i miti “universali fantastici”, a notare “l’evidente fatto che tutta l’esistenza dei primitivi (i “popoli eroici”) è modellata sul mito”. Questa riduzione di tutte le particolarità umane a modelli unici è sostanzialmente un atteggiamento religioso, afferma Pavese.
Forse, scrivendo queste parole estreme, lo scrittore sarà riandato ai giorni di Crea, al collegio Trevisio, ai dialoghi con padre Baravalle, quando di fronte a quello “sgorgo di divinità”, aveva esclamato “Se fosse vero!”. Riconosce di essere giunto a questo concetto di mito meditando “un fatto religioso”. Si chiede allora “che cosa fosse per un fedele un santuario, in che cosa un sacro monte differisse per lui dalle altre colline”. La risposta giunge precisa: “santuario è il luogo mitico dove è accaduta un giorno una manifestazione, una rivelazione del divino (..), un luogo, unico fra tutti, dove il fedele partecipa in qualche modo, con la presenza, col contatto, con la vista, all’unicità di quella rivelazione, la quale si moltiplica nel tempo, proprio perché avvenne la prima volta fuori del tempo, e fonda perciò tutta la realtà mitica del monte”. Conclude quindi lo scrittore: “la qualità dell’oggetto mitico non esprime, ma è il divino”. Appare chiaro che Pavese adotta qui un linguaggio rituale e liturgico, investendo tutto il suo essere dell’evento accaduto.