LETTURE/ P. Emmanuel Braghini, metti un viaggio in tram con don Giussani…

- Danilo Zardin

Filippo Braghini (1928-2012), rivelò una vocazione precoce e diventò frate cappuccino col nome di padre Emmanuel. A lui è dedicata la biografia di Silvana Rapposelli. DANILO ZARDIN

luigi_giussani_1_lapresse_2004 Don Luigi Giussani (1922-2005) (LaPresse)

“Tu per me sei stata il miracolo che mi ha ridato Dio”: queste parole commosse sono il segno della devozione riconoscente con cui Oddone Braghini, nel suo testamento spirituale del 1966, fissava il ricordo della moglie Elina, sposata nel 1921. Dal loro matrimonio era nata una corona di ben dodici figli, e quarto fra questi era stato Filippo, poi diventato frate cappuccino con il nome di padre Emmanuel. Molti lo avrebbero più tardi conosciuto come confessore e strettissimo collaboratore di don Giussani, fin dagli inizi dell’esperienza di missione nel mondo giovanile da cui presero vita, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, Gioventù Studentesca e, in anni successivi, Comunione e Liberazione.

La frase che ho citato non apre solo uno squarcio sul vivacissimo retroterra familiare in cui la figura e la sensibilità di p. Emmanuel affondano le loro prime radici. Vale anche come cifra riassuntiva dell’esperienza che lui ha vissuto, ora riproposta nelle sue linee fondamentali attraverso l’agile profilo biografico che Silvana Rapposelli ha affidato a un volume fresco di stampa (Padre Emmanuel, Itaca 2017, pp. 192), arricchito da un prezioso corredo di documentazione fotografica, oltre che dalle testimonianze di molti fra coloro che hanno avuto modo di incrociare da vicino questo cappuccino “intenso e creativo” (come ebbe modo di definirlo il card. Scola).

Quella frase-emblema rimanda a una dimensione rimasta sempre centrale nell’avventura di cui p. Emmanuel è stato protagonista. Per lui, cresciuto alla scuola dei maestri di vita cristiana della fervida Brescia cattolica della prima metà del Novecento (era nato nel settembre del 1928), affascinato dal modello di fraternità aperta all’impegno apostolico nel mondo incarnato dai seguaci di san Francesco, infine coinvolto nella scia del carisma entusiasmante di Giussani, la fede non poteva essere che una vita da vivere: un principio di nuova umanità innestato dentro tutte le circostanze dell’esistere, fino ai dettagli più concreti e minuti che ne segnano la fisionomia (fino al modo di tenere in ordine la casa, o di sistemare le posate nei cassetti della cucina). 

Ma la forza contagiosa di un ideale totalizzante poteva dispiegarsi in tutta la sua ampiezza e conquistare il cuore dell’io solo passando attraverso la carne dell’esperienza: ancora oggi, ciò che può rianimare le antiche idee e ridare intensità luminosa, trasfigurante e redentrice, al contenuto della fede cristiana non è altro che il suo riproporsi come realtà viva nel presente, riflettendosi nella luce di un volto in cui ci si imbatte, comunicandosi di testimone in testimone, in una catena di condivisione fondata sulla gratuità del dono che attrae in modo irresistibile (“la vita è dono, e l’amore si conserva solo donandolo”: p. 71). La chiave su cui tutto si regge, e grazie a cui la fede può innervarsi nelle fibre profonde della storia dell’uomo, restando incandescentemente viva (senza decadere a puro schema ideologico-religioso, vuoto ricordo del passato travestito di miti), è la grazia di un incontro fisico, reale, che cambia la vita: un incontro che diventa la porta spalancata verso il destino, l’esca che ributta nelle braccia di Dio, mendicante della risposta di adesione da parte dell’uomo mai sazio della sua misura meschina.

Gli incontri hanno determinato la piega presa dal destino personale di p. Emmanuel, e lui a sua volta ha potuto diventare tramite per il riaccadere di un incontro a favore di un numero straordinario di persone accostate nel corso della sua vita instancabilmente operosa. Il primo ambito in cui questa logica del cristianesimo tradotto in una storia di rapporti che legano l’io al tu che lo interpella e indica un cammino è stato naturalmente la famiglia che gli ha dato i natali: un grembo accogliente e ospitale, diventato scuola efficace per introdursi in una vita di buoni cattolici praticanti, seriamente attaccati alla fede trasmessa dai padri, semplici e solidi nella loro devozione con i piedi saldamente piantati per terra, ma aperti anche alle novità che maturavano nella Chiesa contemporanea, sensibili al bisogno di trovare nuove forme secondo cui declinare il patrimonio della tradizione, come emerge in particolare nella figura del padre Oddone, amante di filosofia, di poesia e di teatro, interessato a portare la testimonianza cristiana dentro il tessuto della vita concreta del mondo moderno, legato ai padri filippini dell’Oratorio della Pace, fra cui in particolare p. Giulio Bevilacqua (il futuro consigliere spirituale e confessore di Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI), di cui Oddone “fu allievo” e delle cui “idee innovative” si fece convinto “propagatore” (p. 13).

Superata in età infantile la minaccia di una grave meningite, che mise brutalmente a rischio la sua vita (la madre ne supplicò la guarigione promettendo da parte sua di “donarlo” a Dio, qualora fosse rimasto incolume), Filippo Braghini dimostrò presto una forte inclinazione per lo studio, unita al gusto per la pratica della vita cristiana. Frequentando una parrocchia affidata ai padri cappuccini, le sue preferenze si orientarono presto a favore della famiglia di religiosi con cui era più strettamente a contatto. Cominciò ad avvertire di essere chiamato a fare proprio il loro modello, e appena compiuti i quindici anni, per aggirare le resistenze dei genitori che preferivano rimandare a un’età più matura le scelte definitive per il suo futuro, fuggì in convento a loro insaputa. Il padre non approvò per nulla, e ottenne di farlo rientrare a casa. Ma il grande passo fu solo rinviato, reso ancora più consapevole dagli anni trascorsi nella verifica della vocazione intravista: nel 1945, a guerra conclusa, Filippo entrò regolarmente in convento, a Cremona, completò con buoni esiti l’iter della formazione, e cinque anni più tardi emise la professione solenne dei voti. Il 13 marzo del 1954, a quasi venticinque anni di età, fu ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster. E solo pochi mesi più tardi avvenne l’altro incontro decisivo per la sua vita, dopo quello con la regola di san Francesco reinterpretata secondo lo spirito della riforma cappuccina.

Nel settembre del 1954 don Giussani, ormai intenzionato a dedicare la propria missione sacerdotale alla proposta della vita cristiana nel mondo delle scuole milanesi, si trovò a passare per il convento di Musocco, di fronte al Cimitero Maggiore di Milano, chiedendo di potersi confessare. L’unico frate presente era p. Emmanuel, che perciò fu costretto a rendersi disponibile, vincendo la ritrosia imposta dall’ancora acerba esperienza, che sconsigliava ai giovani frati come lui di cimentarsi nella confessione dei sacerdoti. I due si reincontrarono subito dopo sul tram che riportava in centro, e dal dialogo si sprigionò immediatamente una sintonia che li spinse a fondere le loro esistenze in un rapporto durato tutta la vita.

Il carisma cappuccino, in tutto questo, non fu sminuito, ma rilanciato intrecciandolo all’accento della sensibilità assimilata attraverso la sequela di don Giussani: una sequela tutt’altro che subalterna e passiva, da puro esecutore dei comandi altrui, ma “libera e obbediente”, come bene puntualizza don Carrón nel suo ricordo personale, inserito tra le testimonianze in coda al volume; sequela attraverso cui p. Emmanuel si è immedesimato nel nucleo essenziale dell’insegnamento di Giussani e lo ha fatto riecheggiare attraverso tutti i fili delle relazioni che le circostanze della vita gli spalancarono davanti nel corso del tempo.

Scaturita dalla tensione vitale degli incontri, l’esperienza di p. Emmanuel è diventata a sua volta moltiplicatrice di luoghi, occasioni e rapporti per condividere in modo fecondo il tesoro di una umanità nuova sperimentata immergendosi non a parole, ma con i fatti, dentro il suo flusso. Lui aveva chiaramente compreso che la vita cristiana poteva tornare a risplendere come luce e proposta per l’uomo moderno se ritrovava pienamente tutto il suo slancio di esperienza comunitaria, e la comunione recuperava la sua natura autentica solo quando si ricentrava sulla memoria di Cristo portata dentro ogni circostanza della vita. Ma ripartendo dal suo cuore fondamentale, la vita cristiana vissuta dentro l’alveo di una fraternità reale non poteva che abbattere i bastioni che l’avevano imprigionata nel recinto del sacro, spingendo a dilatarsi per investire la totalità del mondo. La comunione non è un recinto protetto, ma l’inizio della missione: missione come testimonianza, cioè come riverbero di un vero, di un bello e di un buono impastati con l’umiltà di una pratica vissuta in prima persona, che si rispecchia, prima che nei discorsi ben congegnati, nella letizia di una vita umana riportata alla sua ricchezza più profonda, resa paradigma di una convenienza per tutti invidiabile.

Questa apertura alla missione “senza confini”, ci ha testimoniato p. Emmanuel, implica anche il sacrificio, richiede il vigore di una disponibilità totale: “ci vuole coraggio”, “non bisogna aver paura di soffrire, lottare, rinnegarsi”, perché la vita è anche un “combattimento” (p. 63, 74). “Siamo alla guerra”, avrebbe detto anche Péguy, e il compito mai esaurito dei cristiani è quello di “illuminare realmente la notte del mondo” (p. 115, da una predica di p. Emmanuel del 1993). Fuori da ogni pretesa di egemonia dispotica, tutto si riorienta nell’aspirazione ultima dell’amore cristiano: che “Cristo regni”.





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