Già all’indomani del recente risultato referendario nel Regno Unito, che ha aperto la via alla “Brexit”, ci si poteva immaginare che questo passaggio, solo in parte inatteso, oltre alle evidenti problematiche inerenti le relazioni britanniche con il resto d’Europa, avrebbe favorito la ripresa del dibattito interno sulla permanenza degli stati componenti lo UK, in particolare la Scozia — fresca a sua volta di un tentativo elettorale separatista fallito sul filo di lana —, e l’Irlanda del Nord, terra ancor oggi sanguinante a causa della drammatica stagione dei “troubles”.
La guerra civile in Ulster, infatti, per quanto non si possa oggi considerare fortunatamente così “calda” come lo fu tra il Sessantotto (con le rivendicazioni della Northern Ireland Civil Rights Association, Nicra) e il Novantotto (anno del Good Friday Agreement, che ha posto fine alla direct rule di Londra sul paese, e riaperto il parlamento nordirlandese di Stormont), ha lasciato segni pesanti sulla popolazione, comunque ancor oggi divisa tra protestanti leali alla corona e cattolici desiderosi di riunirsi al governo repubblicano di Dublino. Non stupisce più di tanto, così, la presa di posizione dei giorni scorsi del maggiore leader repubblicano nordirlandese, quel Gerry Adams che dopo essere stato tra le guide principali della Provisional Ira, per poi passare a guidare il partito nazionalista nordirlandese del Sinn Fein, oggi impersona il “padre nobile” del nazionalismo cattolico convertito al dialogo, anche per merito delle sue recenti aperture al mondo protestante che hanno condotto al governo di coabitazione nello stato del Nord.
Le argomentazioni di Adams circa l’esigenza di una ripresa di quel progetto di unificazione delle “due” Irlande, che Brexit andrebbe a sollecitare, sembrano in effetti plausibili: in seguito al processo di pace l’Irlanda del Nord, infatti, avrebbe stretto con la Repubblica di Dublino saldi legami economici, sociali e politici (soprattutto negli ultimi vent’anni), e bisogna riconoscere che la pacificazione del 1998 ha avuto, in effetti, nell’Unione Europea il suo strumento e il suo garante. Pertanto, se ora una parte dell’isola, quella ancora sotto la Gran Bretagna, dovrebbe seguire questi ultimi nell’uscita dall’Unione, questa “omogeneità” politico-istituzionale tra i due stati irlandesi confinanti dai tempi della “Partition” del 1921 verrebbe indubbiamente meno.
Adams, nella sua intervista a Repubblica, arriva ad affermare che tanto negativa sarebbe la posizione della popolazione nordirlandese verso “Brexit”, al punto che anche molti unionisti protestanti avrebbero preferito restare nella Ue — votando in questo senso al referendum —, perlomeno per vantaggi economici. E qui si aprirebbe la possibilità di condurre le “Six Counties” raccolte intorno a Belfast dentro lo stato repubblicano, per farle così permanere a loro volta dentro l’Unione.
Un ragionamento che Adams segue, guardando — anche se con un certo distacco (non si dimentichi che da Edimburgo partirono le plantations di presbiteriani protestanti volute anche da Cromwell, che avrebbero “contaminato” il cattolico suolo dell’isola sino allora totalmente fedele al romano pontefice) — proprio l’evoluzione politico-istituzionale della Scozia, dove appunto la Brexit sta sollecitando un nuovo referendum indipendentista, ora volto anche a dissociare il paese dei kilt rispetto all’uscita dall’Ue di Londra.
In genere, non ci si può comunque levare del tutto il sospetto, almeno per chi frequenta la storia contemporanea dei paesi britannici, che in questo richiamo — che peraltro Adams fa esplicitamente nell’intervista — al ruolo arricchente delle “petites patries” nel contesto europeista (Irlanda, Scozia per l’appunto, potrebbero svolgerlo come singole individualità statuali in un’Unione ancor più numericamente “allargata”) ci sia un poco di strumentalità. Così mi verrebbe da dire almeno nel caso del Northern Ireland, se pensiamo anche solo all’idea di riunificazione cattolica dell’Isola di smeraldo, che storicamente si radica nell’art. 3 della Costituzione della Repubblica Irlandese, dove si parla di “United Ireland”, ed evoca inoltre quell’impegno a riconoscere la volontà della maggioranza della popolazione circa l’ordinamento istituzionale dell’Irlanda del Nord che l’Anglo-Irish Agreement enunciò per la prima volta nel 1985.
I “troubles” nordirlandesi, ovvero la guerra civile, che in trent’anni ha mietuto quasi cinquemila vittime tra le due parti nazionalista e lealista del paese, restano probabilmente anche oggi un sogno incancellabile nel cuore e nei disegni di questi grandi protagonisti politico-militari della storia irlandese, che si sono battuti — con le loro colpe e fors’anche con i loro meriti — in tutte le forme possibili per ottenere questo scopo, dal combattimento armato nelle file dell’Ira sino all’impegno politico del Sinn Fein. Se il governo di compromesso, la cosiddetta “cohabitaion” tra protestanti e cattolici ha permesso di ridare un’amministrazione a Belfast, e soprattutto recuperare un livello accettabile di civiltà e pacificazione nel paese dilaniato dalle bombe e diviso dalle “peacelines”, Adams dimostra con le sue dichiarazioni di non essere nemmeno oggi in grado di rinunciare al suo sogno.
E forse, paradossalmente, proprio la Brexit potrebbe offrire un’inaspettata occasione per riprendere, magari in termini pacifici, costituzionali e attraverso un referendum, quel progetto di un’isola tutta repubblicana e indipendente da Londra, per il quale il leader del Sinn Fein e i suoi tanti compagni di lotta, a partire da Bobby Sands, si sono battuti, in molti casi fino all’estremo sacrificio della vita.
O almeno è quello che Gerry Adams, al quale non si può certo negare l’onestà intellettuale di queste ed altre prese di posizioni, continua a sperare.