Hauterive, “Alta riva”: piccolo gioiello di architettura cistercense, tra memorie delle antiche basi romaniche, che riportano agli inizi del XII secolo, slanci di novità del gotico e solido ancoraggio barocco nel corpo monastico centrale, settecentesco. L’abbazia sorge al centro di una conca accogliente, creata dalle larghe anse della Sarine che ha scavato il suo corso tagliando in profondità la pianura dolcemente ondulata dei dintorni di Friburgo.
Tutto in quel luogo parla di sobria bellezza, immersa in un clima di silenzio a cui la natura stessa sembra inchinarsi, docile, senza opporre resistenza. La chiesa del monastero è il suo cuore pulsante, rimasto più protetto nel corso dei secoli. In fondo alla chiesa, il coro che ospita la preghiera dei monaci è uno scrigno di arte che si fa richiamo incisivo per quanti lo frequentano, giorno dopo giorno. Ai monaci che intonano le arie dei loro canti melodiosi, il teatro monumentale del coro risponde con i muti segni degli intagli preziosi sopra gli stalli fra cui si consumano i gesti di una vita scandita secondo la regola di Benedetto.
Il coro di Hauterive è un’opera pregevole scolpita intorno al 1470 da artigiani che realizzarono in quel giro di anni altri cori monastici e canonicali disseminati nella regione. Il suo programma iconografico è impostato sulle figure dei dodici apostoli, abbinati a profeti dell’antica alleanza. Secondo una tradizione rimasta in auge fino alla svolta delle riforme cinquecentesche e del concilio di Trento, la sfilata dei personaggi disposti in serie è tutta in funzione della proclamazione delle verità di fede del Credo: ognuno degli apostoli, identificato dai segni del martirio subìto, recita uno dei versetti che, riuniti insieme, ne compongono il testo; il profeta vi fa eco formulando una frase tratta dal libro della Bibbia che custodisce il suo insegnamento, anticipatore della rivoluzione portata dall’incarnazione di Cristo.
In effetti il perno intorno a cui si dipana il dialogo intrecciato tra i campioni del Vecchio e del Nuovo Testamento — gli uni in umile servizio degli altri — è la scena maestosa del Trono di Grazia. Sullo sfondo delle volute di fiamme che alludono, già da sole, alla fontana d’amore animata dal cuore del mistero divino, la Trinità in persona è messa in scena rappresentandola nella fusione che la tiene stretta in un unico nodo circolare: l’asse dell’equilibrio grava sul Padre che si innalza verticalmente, sovrastando le altre figure, con la corona della preminenza regale fissata sul capo di vegliardo autorevole, le braccia robuste tese a sostenere e a coprire pudicamente il corpo esanime del Figlio deposto dalla croce, mentre in mezzo, quasi a congiungere i loro volti, si inserisce il simbolo dello Spirito, evocato sotto l’inconsueta forma di un’aquila.
In pratica, Dio Padre ostende di fronte all’umanità che guarda al rinnovarsi del mistero della salvezza del mondo il frutto della sua generazione eterna: il Figlio viene da sempre generato fuoriuscendo dal grembo del Signore supremo dell’Essere e andando incontro all’uomo come dono, esattamente come nell’altro pannello centrale del coro ligneo di Hauterive Maria seduta in trono mostra ai devoti il frutto del suo seno verginale, il Figlio divino che si è fatto carne, reggendolo in piedi sulle ginocchia. Così facendo, la Madre di Dio replica, in versione femminile e materna, quello che il Padre compie, da parte sua, rimettendo in piedi, facendo risorgere alla pienezza del suo esistere come Figlio, il Cristo ormai adulto uscito dai tormenti della passione, reduce dall’aver portato fino all’ultimo stadio il disegno di voler essere in tutto simile all’uomo povero e piagato dal male, calandosi nella realtà della vita nel tempo che si spegne con il dramma della morte, apparente trionfo del non senso che divide la creatura dal suo Creatore e minaccia di rinchiuderla sigillandola nella prigione della tomba.
Dal tesoro di segni del coro di Hauterive prende avvio l’ultimo libro di p. Mauro Lepori, che proprio a Hauterive è stato monaco e abate per diversi anni, prima di diventare abate generale dell’ordine nel 2010 (Riconoscere Cristo, misericordia del Padre, Itaca 2017, con introduzione e conclusione di Julián Carrón). Il prezioso volume raccoglie i testi delle meditazioni dettate durante gli ultimi esercizi annuali per sacerdoti proposti dal movimento di Comunione e Liberazione. Ma il filo del discorso va decisamente al di là di un approfondimento “tecnico”, per specialisti della gestione del sacro. Si tratta dell’invito a rivivere l’esperienza dello stupore davanti all’avvenimento di Cristo che si rivela e si fa incontrare nella carne delle circostanze più fisiche e quotidiane del “cambiamento d’epoca” in cui ci troviamo coinvolti.
Lo stupore non è però automatico. Scatta quando è provocato da una evidenza oggettiva che si impone: è la reazione di tutta l’energia dell’io trascinata da una presenza che si manifesta. Per questo le meditazioni di p. Lepori si mettono in moto esattamente scavando sul senso di ciò che fa risaltare l’eloquente messaggio visivo del coro monastico, cominciando dalla scena-madre del Trono di Grazia trinitario che abbiamo descritto. L’icona scolpita è il varco che rimanda a un Altro che ci scavalca: sta di fronte a noi e ci parla. Nella solennità austera della sofferenza che ci ripone decisamente sotto gli occhi si addensa, come nel fulmine di uno svelamento istantaneo, la logica ultima dello sguardo che Dio assume di fronte al destino del tempo e, in esso, piegandosi sulla vita dell’uomo che egli ha creato facendone una “cosa buona”, affidata però al rischio di una totale libertà di risposta.
Le tavole del coro di Hauterive ruotano intorno alla memoria bruciante di un dramma sanguinoso. Ma aprono nello stesso tempo al prodigio dell’amore redentore trasfigurante, che fa risorgere, di cui le lacrime e il sangue sono stati il prezzo atroce. Presentando il Figlio come offerta che si è donata per la salvezza del mondo, il Padre svela la sua natura ultima, la stoffa del mistero che lo costituisce: Dio è carità che ama, che si espande e si compie nel dono verso l’Altro da sé, generando e facendo vivere l’altro da sé per realizzarsi nella comunione che unisce. Qui si esalta quasi l’orgoglio dell’amore divino che non teme il martirio dell’espropriazione per affermare se stesso: Cristo è totalmente uomo, come uno di noi, il corpo senza vita, gli occhi serrati, la bocca storpiata in una smorfia di dolore, tutto solcato da rivoli di sangue che sono il tatuaggio indelebile della misericordia vissuta fino all’ultima goccia del dono totale. Il braccio destro si flette toccando la ferita del costato trafitto. Il braccio sinistro si distende lungo il corpo in stato di abbandono, con il palmo della mano aperto verso chi guarda, in un gesto mansueto di invito, indice esplicito della volontà di accogliere chiunque sia disposto a seguire le medesime orme del Maestro.
Non a caso, commenta p. Lepori, la scena trinitaria è messa al centro del Credo degli apostoli. È il fulcro dell’evento su cui si innesta il mistero della realtà messo in tensione dall’incarnazione e dalla redenzione di Cristo, cuore segreto del mondo svelato dall’annuncio cristiano, destinato a essere disseminato in tutto il mondo attraverso la missione dei testimoni della fede, nella scia dei primi che di Cristo furono apostoli diretti, allineati uno in fila all’altro e chiamati di nuovo a testimoniare la loro parte di verità sui sedili del coro monastico di Hauterive.
Come loro anche noi, duemila anni dopo, siamo chiamati semplicemente a immedesimarci nello stesso movimento di offerta che, dalle profondità di Dio-Trinità, arriva fino alla misericordia consolatrice e benefica dell’amico che incontriamo sul nostro cammino di ogni giorno. Aderendo alla mano aperta di Cristo che ci invita, abbracciando la sua carità, tentando di identificarsi con la gratuità stampata nello strazio delle piaghe gloriose, entriamo nel respiro di una misericordia che, irradiandosi nello spazio del mondo, fa risorgere la vita come l’acqua che rigenera il più arido dei deserti. Tutto comincia dall’imparare a rispecchiarsi nel segno concreto di Chi, deposto dal duro legno della croce, il Padre innalza a paradigma dell’amore riconoscente.