Sono uscite per i Meridiani Mondadori le Opere poetiche di Percy Bysshe Shelley (1792-1822) a cura di Francesco Rognoni, docente di Letteratura inglese nell’Università Cattolica di Milano. Tra le sue curatele, Giorno per giorno di Robert Lowell (Mondadori) e La caduta di Iperione di Keats (La Nuova Italia). Abbiamo dialogato con lui in vista dell’uscita del secondo Meridiano dedicato a Shelley, che raccoglierà teatro, prose e lettere del grande poeta romantico.
Qual è la collocazione di Shelley nella tradizione anglosassone?
È uno dei grandi classici: dopo la prima generazione dei romantici, Blake, Wordsworth, Coleridge, c’è la seconda triade, con Shelley, Byron e Keats. Di questi, Shelley è il più sfortunato dal punto di vista editoriale. Keats, sfortunatissimo in vita, ha conosciuto una fama sempre maggiore. Per Shelley ci fu un grande innamoramento nell’Ottocento, ma con una lettura parziale, poi è stato invece oggetto di un forte ostracismo. Nel Novecento è diventato addirittura la pecora nera della letteratura inglese. Grande parte della poesia del Novecento si è schierata contro di lui. T.S. Eliot nel saggio Keats and Shelley volle assolutamente collocarsi come “moderno” e quindi come lontano dal quel Romanticismo: Shelley esce molto male in questo saggio, come poeta rappresentava tutto ciò che non bisognava essere. Nel Castello di Axel Edmund Wilson ricorda che negli anni Venti per un giovane poeta citare Shelley poteva costare la vita.
I grandi temi di Shelley?
La libertà, l’amore, la natura, la violenza del potere, la speranza. Nella prosa si trova molto anche il viaggio. Per quanto riguarda la natura, Shelley era davvero bravo a descrivere i cambiamenti climatici, che forse sono la parte più difficile da mettere in poesia. Per esempio, la poesia The Cloud, la nuvola, è un monologo drammatico in cui la nuvola parla in prima persona. Spesso Shelley viene accusato di essere troppo narcisistico, ma lui sapeva interiorizzare la natura, come fece nella poesia dedicata al Monte Bianco. La parola “natura” non è così ricorrente in Shelley come in Wordsworth, in questo senso uno degli attacchi più duri contro di lui fu portato dal critico letterario F.R. Leavis, che considerava l’Ode al vento occidentale una poesia scombinata, perché le metafore, a suo parere, non stavano né in cielo né in terra; in realtà, studi più approfonditi hanno confermato che Shelley fu addirittura “scientifico” nella descrizione di certi tipi di nuvole o della tromba marina, le sue metafore sono estremamente rispettose dello spettacolo naturale, sono meteorologicamente esatte. Non c’è conflitto in lui tra scienza e poesia, così come non c’era in Dante e in Lucrezio. La natura in Shelley non è solo quella dei paesaggisti, ma anche quella degli scienziati. Shelley amava scrivere all’aperto, in cima a una torre o nel bosco.
Com’era il suo cantiere creativo?
Si è detto che scriveva in fretta e in maniera troppo spontanea. È vero che scriveva in fretta, come tutti i romantici, come se sapessero di avere poco tempo a disposizione. Sono certo di aver impiegato più tempo io a tradurre una poesia che lui a scriverla. Ma Shelley era anche capace di correggersi molto. La sua poesia è spesso lavica, nasce nel momento dell’ispirazione, però poi è una poesia che si confronta con la ragione. La cultura di Shelley è estremamente illuminista. Da una parte abbiamo il getto poetico, dall’altro la riscrittura, il lavoro sul verso. Wordsworth ha detto: “Dal punto di vista ‘artigianale’, Shelley era il migliore”. Era un grande tecnico del verso. Il Prometeo liberato conta più di 30 metri di versi ed è paragonabile al Faust di Goethe.
Da dove partire per leggere Shelley?
Consiglierei quattro poesie, due lunghe e due brevi: L’Ode al vento d’Occidente, A un’allodola, Julian e Maddalo, La maga dell’Atlante, una poesia felicissima in ottave scritta in due giorni e mezzo, dopo aver letto i primi canti del Don Giovanni e dopo aver tradotto in ottave l’inno omerico a Ermes.
L’Italia di Shelley?
Ha scritto i testi più importanti in Italia, le lettere più belle, forse avrebbe vissuto in Italia il resto della vita. Non è da escludere che verso la fine della vita, quando era molto frustrato e invidioso per il successo di Byron, abbia addirittura pensato di iniziare a scrivere solo in italiano. L’Italia è stata un’enorme fonte di ispirazione. Per i romantici significava la Grecia. In fondo, Byron è stato uno dei pochi ad andare davvero in Grecia. Il Trionfo della vita è una poesia stupenda sia dantesca sia petrarchesca, è il suo testamento in terza rima. Eliot, che non amava Shelley, riconosce che questa poesia è il testo più importante per l’immissione di Dante nella cultura inglese.
(Alessandro Rivali)