Il primo interrogativo che pone la poesia — pur così sfaccettata e polisemica — di Paolo Valesio è: è una poesia religiosa? Ne è perfettamente consapevole lo stesso autore, che inutilmente si dibatte per sfuggire alla banalità di un interrogativo così posto e intanto sempre più si addentra nei meandri in cui l’interrogativo si ritira; tanto più si ritira quanto più si addentra. In realtà l’interrogativo è banale solo se per religione s’intende religiosità. Non lo è se la s’intende come ricerca inesausta, come anelito alla trascendenza.
Si dirà: ma non è questo che può leggersi in filigrana in qualsiasi (vera) poesia? No; in Valesio c’è un elemento in più. Il suo anelito alla trascendenza è religioso perché lui ne è ineluttabilmente intricato, cerca un tramite di collegamento, un ponte (pontifex). La sua poesia è religiosa perché religio est relatio. Ma non la religione recepita: “La religione è ciò che lega e blocca/ che congestiona/ il nostro viso di esasperazione/ perché/ possibile non è/ il perseguire nella via diaria“. Valesio si divincola, si aggrappa a un tramite sfuggente: lo trova, suo malgrado, in Cristo e suo malgrado con Cristo lo perde.
Si potrebbe dire di Valesio che insegue, con una tensione sia poetica che speculativa, la propria confessione assoluta, ma intanto la rinvia e la evita. Tuttavia, pur sul background di una vastissima cultura, la sua formazione religiosa è troppo immanente, troppo invadente perché egli possa liberarsene. E’ la cultura del Libro, ma anche dei mistici che — come lui e in maniera meno eterodossa, ancorché personalissima — hanno indagato il mistero, hanno somatizzato l’alto-di sé, si sono sollevati al di sopra della convenzionalità e della conformità del rapporto chiesastico. Bene ha fatto dunque l’autore a porre per prima nella raccolta la poesia Pregando a Manhattan, che aveva avuto un discusso impatto proprio per la sua sensualità inquietante (eros kai thanatos).
Certo, vorrebbe Valesio che la sua poesia fosse “una preghiera pura/ come una fiala come/ un’esalazione di vetro/ in un’isola veneziana“. Ma questo può avvenire forse solo in sogno (così come un sogno è Venezia). Nella quotidianità, sulla scala di Jacob non scendono e salgono angeli in funzione del nostro desiderio di salire; nella quotidianità siamo trasportati su una scala mobile della quale ci illudiamo di salire i gradini mentre i giorni e gli avvenimenti scorrono senza che possiamo fermarci, senza che possiamo arrestarli.
Sulla frontiera più avanzata della fisica il tempo è una convenzione/convinzione reversibile a livello quantistico; ma a livello macro è un tapis roulant che trasporta con sé lo scorrere inesorabile dell’esistenza degli esseri viventi. L’unico modo di fermarlo è la suggestione artistica. Rendere percepibile in una combinazione di parole, in un accordo musicale, in un quadro, in una statua (i bronzi di Riace), quel brivido di eternità (“Fermati attimo, sei bello!”) che ci ha folgorati, come Saul, sulle strade più usuali e nei momenti più inaspettati della nostra esperienza corriva. E’ proprio questa la funzione della poesia: rivelarci qualcosa che guardavamo con gli occhio di ogni giorno senza vederlo. Allora le percezioni, le sensazioni acquistano un’altra valenza. Ci recano un messaggio che attendevamo senza saperlo; diventano gradini, sia pure scivolosi, per sfuggire alla limitatezza effimera e transeunte del nostro essere qui, adesso.
L’ideale sarebbe reinventare ogni parola; ma non esistono parole magiche; e, se esistono, la seconda volta che vengono pronunciate sono smagate. D’altra parte non siamo più ai tempi di Dante o di Shakespeare che hanno potuto creare, inventare un linguaggio. Pure, Valesio ci prova, magari convertendo le parole a un significato inconsueto, a volte anche contaminando l’italiano e l’inglese per potenziare anfibologicamente la forza espressiva di un lemma: sospiranza; inganni e sganni; indenta e sdenta; dis-morire; omidio (l’omicidio dell’uomo-Dio); frugato da quella frase come da punta di pugnale; time warp.
Quella di Valesio è poesia-pensiero, ma pensiero emozionato che a volte si trasforma più marcatamente in immagine. E niente trasmette un’emozione come un’immagine felice. Ci sono nella raccolta alcune poesie più spiccatamente immaginifiche la cui percezione persiste a lungo, in sovraimpressione. Giona che “si batte il palmo sulla bocca” per non dire a Dio: “Fammi morire”. E ancora: “Il livore della luna” (bellissimo!). “Le cosce bagnate nell’ombra” (Garcia Lorca).
Infine “Il sonetto di Maddalena” è tutto un palpito d’amore, di attrazione sensuale, di anelito all’altro-da-sé che ci sfugge, ancor più quando l’altro-da sé è l’alto-di sé, perché l’amato è un dio che ci lascia nel deserto della nostra solitudine per inettitudine a congiungerci con lui. “Noli me tangere“: allo stesso modo ci lascia la poesia dopo averci sedotti e sospinti verso l’illimite.
Forse chiediamo al Dio delle religioni una presenza impossibile e della quale tuttavia sentiamo il bisogno. Forse chiediamo alla poesia più di quello ch’essa possa darci.
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Paolo Valesio, “Esploratici solitarie (Poesie 1990 – 2017)”, Raffaelli Editore 2018.