LETTURE/ Il ’68 degli alpinisti: la montagna e il tramonto dell’utopia

- Alberto Trevissoi

Enrico Camanni è in libreria con “Verso un nuovo mattino. La montagna e il tramonto dell’utopia”. Come il ’68 ha cambiato l’alpinismo e i suoi protagonisti

ezio berti coronavirus Pixabay

Gli anniversari: come ogni compleanno, non vediamo l’ora che arrivino, ma anche che passino in fretta. Come i cinquant’anni dal ’68: se ne è parlato tanto, troppo, senza capirne ora più di allora. Meno, però, si è parlato del ’68 per il piccolo grande mondo dell’alpinismo, e a tutti gli appassionati piace parlarne ancora.

Proprio nell’ottobre di quell’anno Reinhold Messner pubblicò sulla Rivista del Cai “L’assassinio dell’impossibile”, pietra miliare per il ritorno all’arrampicata libera e il rifiuto dei mezzi artificiali.

Il vero ’68 alpinistico, in realtà, arrivò qualche anno dopo in Italia, con “Il nuovo mattino”, che l’alpinista-filosofo Gian Piero Motti scrisse sulla Rivista della Montagna nel 1974, rivelando la grande rivoluzione che, partendo dalla California, conquistava l’Europa: basta vecchio scarpone e sofferenza in alta quota, via libera alla gioia di arrampicare e alla fantasia al potere, anche sulle pareti. “La notte, invece di bivaccare dentro un buco di ghiaccio, preferisco dormire con Françoise”, diceva scanzonato Jean-Marc Boivin, capostipite francese con Berhault ed Edlinger, poi Escoffier e Profit, di questo nuovo alpinismo fatto di tute colorate, lunghi capelli fotogenici, scarpette di arrampicata strettissime, polvere di magnesio sulle mani, velocità pazzesca di scalata.

L’anniversario del nuovo mattino lo celebra Enrico Camanni nel suo ultimo libro Verso un nuovo mattino. La montagna e il tramonto dell’utopia (Laterza, 2018). Camanni è ottimo scrittore — dalla Nuova vita delle Alpi del 2002 fino alla vita di Giusto Gervasutti del 2017 (Il desiderio di infinito) — e alpinista di punta, anche se confessa candidamente di soffrire di gravi vertigini (un po’ come se un grande pittore rivelasse di essere daltonico). Camanni racconta cinquant’anni di storie di alpinisti, non solo sulle pareti, ma anche nella società che intanto cambia, dall’economia alla politica. Parte dagli entusiasmi irriverenti del nuovo mattino, che scopriva il gusto dell’arrampicata per il solo piacere di arrampicare, anche a bassa quota. Li guarda con tristezza, però, senza sperare in un alpinismo che riesca finalmente a conciliare gli atleti sopraffini dei passaggi estremi, protetti dagli spit piantati nella roccia, con i protagonisti di grandi imprese sponsorizzate in Himalaya.

Camanni rivive profonde amicizie, a cominciare dai tanti incontri con Motti, morto suicida nelle sue amate Valli di Lanzo nell’83, e con il re delle cascate ghiacciate, Gian Carlo Grassi, morto nel 1991 in Appennino sul ghiaccio dei Monti Sibillini. E molti anniversari Camanni ci ricorda.

Sono passati quarant’anni esatti da quando Guido Rossa, a fine ottobre 1978, denunciò la presenza delle Brigate rosse all’Italsider di Cornigliano (Genova). Fu ucciso dalle Br tre mesi dopo. Rossa era operaio e grande alpinista, ma lasciò l’arrampicata di punta per dedicarsi completamente alla difesa in fabbrica dei diritti dei lavoratori. Una clamorosa eccezione alla regola che aveva stabilito Motti in un altro famoso scritto, del 1972, I falliti: “Alcuni si illudono di essere qualcuno, credono di essere importanti, solo perché nell’alpinismo hanno raggiunto i vertici. Ma se tu li trasporti in un altro ambiente, se li inserisci in un differente contesto sociale, allora li vedi incapaci di sostenere un dialogo qualsiasi”.

C’è un’altra recentissima eccezione, guarda caso un anniversario, che ridà un po’ di ottimismo a noi amanti della montagna. Mike Kosterlitz, scozzese, è stato un protagonista dell’arrampicata negli anni Settanta anche sulle rocce italiane, insuperabile nelle scalate in fessura. Due anni fa, nell’ottobre 2016, ha vinto il premio Nobel della Fisica per le sue ricerche sui campi quantistici.





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