Dopo Ulysses e Finnegans’ Wake di James Joyce, si disse, non vi potrà essere nel romanzo nulla di “simile ma nuovo” sotto il sole, e le lingue orali delle minoranze fanno tutte, prima o poi, la fine della tigre bianca; si cerca di impedirne l’estinzione, ma la china è inevitabilmente discendente.
Il romanzo Cré na Cille di Máirtín Ó Cadhain, letteralmente “L’argilla nel Camposanto”, pubblicato in gaelico nel 1948, sfatò la prima profezia, non sotto il sole, ma sottoterra, interpretando in modo realmente innovativo la tradizione del flusso di coscienza così fortemente associata a Joyce. L’opera non riuscì a dare l’avvio ad una rinascita del gaelico come lingua di una comunità; d’altronde, fu lo stesso Ó Cadhain, morto nel 1970, ad annunciare come unico destino possibile per la comunità gaelica la morte, profetizzando che quando la comunità gaelica fosse morta, con essa sarebbe morta anche la lingua gaelica. Ironia della ironie, l’unico romanzo del XXI secolo scritto in gaelico è fatto di voci di morti, gli unici a pre– (o meglio post)-occuparsi della vita di e in tale idioma.
La traduzione in inglese dell’opera fu a lungo rimandata, si narra — e se avete mai conosciuto un irlandese, saprete che, una volta sciolta la lingua, il “si narra” può non aver mai fine —, forse per volontà dell’autore; o forse per l’improvviso ritiro in convento della potenziale traduttrice (che abbia preferito il linguaggio dell’orazione perenne a Dio alla cacofonia delle voci dei morti di Cré na Cille?); o forse per il timore reverenziale che il gaelico stesso ispirava ai potenziali traduttori.
Sta di fatto che, quando la traduzione in inglese, la “lingua del nemico” — Máirtín Ó Cadhain era indipendentista e membro dell’Ira —, ci fu, fu duplice, ed è su queste traduzioni che i quattro traduttori italiani si sono basati per la resa di Cré na Cille, Parole nella Polvere, per i tipi di Lindau (2017). La copertina di Parole nella Polvere riproduce un fotogramma dell’adattamento cinematografico di Cré na Cille, con un vecchio irlandese vanga in mano e visto da un insolito punto di vista: un lembo di terra visto dal basso, il punto di vista dei morti che narrano, senza fine, senza pausa, senza direzione, senza scopo. Lo scopo è priorità della vita, che sia essa quella terrena o quella eterna, e quella di Cré na Cille non è la felicità eterna, ma non è nemmeno la dannazione eterna. E’ un’altra cosa, e la genialità dell’opera, apprezzabilissima anche nel passaggio della doppia traduzione che pure comporta la perdita della ricchezza del gaelico coi suoi suoni ed idiomi, sta nell’aver appunto individuato una nuova dimensione di quell'”unknown country” di Shakespeare, immaginato come un labirinto di voci, un vero proprio maze da cui non vi è via di uscita.
Caitriona Paudeen, la prima voce ad aprire il romanzo, morta a 71 anni per i reni che hanno ceduto, insulta, sbraita, interroga, inveisce e alla fine — se di “fine” si può parlare quando si mostra Life-in-Death, la vita della morte —chiede ancora per la sua tomba la sua croce di pietra dell’isola. Le è concesso di essere udibile molte volte, il suo “Scoppio! Scoppio!” risuona spesso ad ogni pettegolezzo che le porta ogni nuovo morto, e ciò anche nelle ultime pagine, ma non crediate che possa aiutarvi davvero a capire il come e il perché di questo mondo. Caitriona non è la Beatrice di Dante nel labirinto, e lo stesso vale per the Big Master, anziano e geloso maestro di scuola ossessionato dal nuovo amante, Billy il postino, di una moglie che (sper)giura al maestro di scuola di non risposarsi: neanche il pudore di Jack l’usignolo, che non vuole mai parlare male di chi non è presente, o la “rinascita” di Nora Johnny, che dopo una vita di notti brave coi marinai, trova la “cultura” nel cimitero, o le elezioni (!) indette fra i morti, o una qualsiasi delle voci che si rincorrono, riga dopo riga, anche quando inneggiano ad un Hitler purificatore dell’Europa, o cantano canzoni in gaelico di donne e amori; nessuna di queste voci prende per mano il lettore per guidarlo nel maze, anzi.
Tutti si parlano sopra, o forse si dovrebbe dire “sotto”. L’unica guida è un elenco di dramatis personae, con l’ironica indicazione di “appena seppellita” accanto al nome della voce più querula che segue all’indicazione del “Tempo: l’eternità”. Segue all’elenco una scarna indicazione ortografica: la lineetta indica un discorso che inizia, lineetta e puntini che esso continua, e i puntini una lacuna. Nulla di più, per addentrarsi nel maze.
L’autore ha dovuto accettare la materialità della carta su cui le voci dei morti si trascrivono, e i limiti che noi lettori, tuttora viventi, abbiamo al contrario dei morti, e che ci obbligano ancora ad assorbire una parola dopo l’altra: viene tuttavia da pensare che avrebbe preferito uno spartito musicale, dove le voci possono parlare assieme, come gli strumenti di un’orchestra; le varie parti dell’opera sono chiamate Interludi, e sono tutte “Terra”; la prima è “nera”, poi “sparsa”, poi “rivoltata”, poi “sgretolata”, e via via, fino a “imbiancata”. Un’unica variazione dello stesso tema, un interludio che si ripete sempre uguale con tonalità diverse senza che la sinfonia possa realmente avanzare. I brevi stacchi in prosa della tromba del giudizio, l’unica pausa a questo stream of words inarrestabile e disincarnato, sono solo una satira dell’altra anima dell’Irlanda, quella prosa succulenta e raffinata che col suono del gaelico e della comunità gaelica nulla ha a che spartire; questi interludi illudono il lettore che si esca dal maze delle voci, ma sono più morti delle voci dei morti, e trasmettono solo un senso, uno dopo l’altro, di infinita delusione.
Quello in cui il lettore si trova è il labirinto di una sinfonia mancata dove i soli punti di riferimento sono le espressioni formulari di voci letteralmente senza corpo; alti, magri, belli, brutti, corpulenti… i morti non hanno corpi da descrivere. Nulla si sa di preciso di questi corpi finiti, spenti, usati, uno sopra l’altro e mai zitti, ridotti a voci che non sono più coscienze, ma tracce mnemoniche di ossessioni passate cristallizzate dalla tomba, schemi psicologici di quello che fu una volta un’anima. Se l’eternità non fosse il Paradiso promesso o l’Inferno temuto, assomiglierebbe paurosamente al nulla di questo cimitero dove tutto è dematerializzato, e dove non esiste nessuna comunione dei santi, e nemmeno una più laica memoria dei vivi, una qualche forma di comunicazione fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Le uniche notizie, così preziose per l’eterno pettegolare ed imprecare e lamentarsi, vengono dall’ultimo morto; coi vivi non si comunica, del mondo dei vivi non si hanno visioni; è morto quanto quello dei morti. Diabolico e geniale isolamento, che la scrittura in gaelico non fece che accentuare, e dove la bestemmia, la volgarità e il chiacchiericcio si diffondono tanto liberamente quanto lo fecero nel mondo dei vivi, divenendo qui totale e completa ossessione.
Il maze non ha (un/a) fine; più che di uno spazio narrativo da riempire, l’opera ha uno spazio uditivo da colmare con una sinfonia anarchica. Un babble, un brusio, un parlare a vanvera, in cui le conversazioni non sono mai a proposito di quello che si sta dicendo, ma si dipanano da sole, come un non-senso che semplicemente si prolunga nel cimitero perché per i vivi ora morti non c’è differenza fra morte e vita. Continuano ad essere quello che sono in punto di morte, trasformando un libro in una macchina del vento che emette folate di chiacchiericcio, ciacolare e cianciare.
Altro che Rip, rest in peace: è una cacofonia infinita, e non una cacofonia di vita. Da convinto socialista, Máirtín Ó Cadhain ha laicamente e magistralmente fatto parlare il Nulla.