Chi ha inventato l’espressione “alternanza scuola lavoro” forse non sapeva che stava mettendo in rapporto due parole completamente antitetiche. Il significato di entrambe si è profondamente modificato nel corso dei secoli e hanno finito per assumere un valore molto diverso da quello originario. Lavoro viene dal latino labor, che significa “sofferenza”, sia fisica sia interiore. Labor non è l’opera, ma la fatica impiegata per realizzarla: come dice Cicerone (Tusc. 2, 15), labor confina con dolor, ma è una cosa diversa, in quanto il labor è il soggiacere a un impegno gravoso, volontario o meno, mentre il dolor dipende da una sensazione corporea involontaria. Il verbo derivato laborare esprime sempre l’idea di fatica, sforzo e sofferenza. Nel passaggio dal valore di “sofferenza” a quello odierno di “attività di produzione di beni” si percepisce la duplice prospettiva con cui è visto l’operare umano nel corso dell’antichità: possibilità di crescita e di riscatto, ma anche dura punizione che, nel passaggio dall’età dell’oro alle meno felici età successive, gli dèi hanno inflitto all’umanità nascondendo sotto terra i prodotti e i beni necessari per alimentarci. Per esprimere l’idea del lavoro altre lingue romanze hanno scelto una metafora ancora più radicale: l’operare umano è associato all’idea di tortura, perché francese travail, spagnolo trabajo, e così via si rifanno a un antico strumento di tortura formato da tre pali, il tripalium, a cui il condannato viene incatenato o appeso. Solo il cristianesimo (si pensi all’ora et labora dei benedettini) poteva valorizzare il senso dell’operare umano in una prospettiva di piena positività.
Ma ancora più sorprendente è il cambiamento di significato dell’altra parola, scuola. Attraverso il latino schola essa risale al greco scholé, che in origine significa “tempo libero”. Come si è arrivati dal significato primitivo a quello attuale? In greco la parola è l’equivalente del latino otium “tempo libero per lo studio e l’attività intellettuale”, e indica quei momenti di tranquillità in cui siamo privi di impegni legati alle necessità meno nobili della vita, quelle che ci portano a faticare per procurarci i mezzi di sussistenza o ci impongono responsabilità sociali. Il contrario di scholé è ascholía, la mancanza di tempo da dedicare alla riflessione, alla formazione intellettuale e alla contemplazione del bello, perché per l’uomo greco la prima esigenza è quella di capire chi siamo e perché viviamo, di nutrirsi di sapere e di arte, e il tempo dedicato ad altre attività è tempo sottratto a questo impegno prioritario e fondamentale: praticamente ascholía, la mancanza di scholé, è tempo sprecato e sottratto a quella che dovrebbe essere la vita vera.
Il passaggio al valore odierno si è progressivamente attuato quando scholé viene usato, nella lingua dei filosofi, per indicare l’attività di riflessione e dibattito che si svolgeva ovunque, per le strade e nelle case, e quindi ha assunto il valore di “discussione, lezione” e poi di “luogo dove si svolgono le lezioni” oppure di “discepoli che seguono una lezione sotto la guida di un maestro”. Alla base di scholé c’è l’ideale della paideía, una delle parole chiave del mondo greco: paideia è l’educazione, la formazione dell’individuo tesa ad attuarne pienamente le potenzialità, e poiché l’ideale della persona comprende sia l’aspetto fisico sia la cultura e l’istruzione (kalòs kaì agathós, “irreprensibile sul piano fisico e morale”, è la formula riassuntiva in Grecia per designare l’uomo perfetto, essendo vigoria fisica e valori etici intrinsecamente legati), l’educazione è uno degli impegni prioritari che la collettività si assume.
Riprendere il significato originario delle parole può essere utile per recuperare valori che si sono via via offuscati: oggi parlando di scuola spesso si finisce per svilire il dibattito circoscrivendolo in questioni che hanno un orizzonte ben più limitato di quello che la parola evocava in epoca antica: la riflessione sulla parola greca ci ricorda che scholé non è solo acquisizione di conoscenze e di competenze: la parola evoca un ideale di piena valorizzazione della persona e ha risonanze che oggi facciamo fatica a percepire.