LETTURE/ Christine Delphy e le altre: così l’amore di una madre batte il femminismo

- Salvatore Abbruzzese

Una delle più consistenti eredità del '68 è rappresentata dal movimento femminista. Una delle sue principali protagoniste è stata Christine Delphy. SALVATORE ABBUZZESE

femminismo_manifestazione_wikipedia Manifestazione femminista degli anni 70 (foto da Wikipedia)

Il movimento femminista costituisce una delle eredità più consistenti e emblematiche del Sessantotto. Per quanto non lo caratterizzasse affatto nel suo momento iniziale, il movimento di liberazione della donna non tarderà a sovrascriversi sopra le righe dell’ondata di protesta, avviando un consistente processo di revisione critica all’interno di quest’ultima, fino ad aprirvi un nuovo fronte di riflessione culturale.

Al centro della critica c’è infatti l’asimmetria dei rapporti tra uomo e donna: un’asimmetria che — questa sarà la tesi principale dei diversi movimenti femministi — scivola, sempre e comunque, in una subordinazione sociale, culturale e politica della donna rispetto all’uomo. E ciò è tanto più grave quanto più questa stessa subordinazione sembra restare impermeabile al riconoscimento dei diritti politici, economici e famigliari che il Novecento ha avviato e portato a termine. L’asimmetria continua infatti a caratterizzare l’intero universo delle relazioni — soprattutto quelle private — tra i due generi, relegando la donna in una posizione di subordinazione implicita, che è psicologica prima ancora di essere materiale. Una tale subordinazione limita la sostanza e inficia la portata reale di ogni democrazia. 

La solidità oggettiva di una tale analisi, facilmente verificabile in qualsiasi analisi storica dei rapporti sociali e soprattutto la sua collocazione sul piano dei rapporti psicologici, ha finito con il produrre un vero e proprio corto circuito per l’intero universo maschile. Collocato dalla nascita in una posizione di superiorità nel rapporto di genere, il “maschio” (il genere infatti è qui ritenuto riassuntivo del tutto), in quanto interamente e totalmente strutturato e condizionato da una tale collocazione, non può avere nessun accesso ad un universo che gli è estraneo. Di fatto, proprio in virtù di una tale collocazione, qualsiasi discorso sulle donne non può essere portato avanti che da quest’ultime e solo da esse. 

L’intervista a Cristine Delphy — tra le più esplicite e consapevoli rappresentati del movimento di liberazione della donna — a cinquant’anni di distanza dal 1968, pubblicata sulla rivista Millennium e da lì rilanciata sul Fatto Quotidiano, non restituisce una tale analisi ma la dà per nota: tanto è oramai diffusa e, proprio come ogni altra ideologia dominante, non ha bisogno di essere spiegata. L’asimmetria dei rapporti sociali tra uomo e donna è un fenomeno la cui oggettività è tale da imporsi come semplicemente evidente. Così come è evidente il senso di frustrazione e di indignazione che una tale asimmetria non può non suscitare per chiunque veda nella democrazia il necessario scenario politico della vita sociale. 

Eppure ogni riflessione sui fenomeni sociali (quelli la cui origine è nella società stessa) non richiede solo l’oggettività; non può cioè accontentarsi dei chiari riscontri concreti sui quali si fonda, né della lucidità e del rigore di pensiero di cui dà prova, né ancor meno, della gravità dei fenomeni sociali che denuncia e quindi dello scandalo morale che obiettivamente solleva. Accanto all’oggettività ed al rigore dell’analisi ogni riflessione sociologica — perché in questo caso di sociologia si tratta — deve anche badare a non lasciare fuori dal campo analitico elementi giudicati eventualmente secondari, ma che in realtà, con la loro stessa presenza altrettanto oggettiva, consentono di restituire l’integralità del fenomeno stesso.

C’è allora da chiedersi se l’asimmetria stessa tra uomo e donna, un’asimmetria che perdura al di là del riconoscimento della parità dei diritti e penetra fino al cuore dello stesso Occidente progredito e secolarizzato, dica veramente tutto ciò che è essenziale. 

Cominciamo dalla narrazione che Cristine Delphy stessa ci restituisce degli inizi del movimento di liberazione della donna (Mlf) a Parigi. “Il 26 agosto 1970 decidemmo di portare simbolicamente dei fiori all’Arco di Trionfo alla moglie del milite ignoto. Perché ancora più ignoto di lui, c’è la moglie. … ci arrestarono. Fu una scena bellissima. Eravamo solo in nove, davanti a decine di agenti… Che ridere! I giornali titolarono: Movimento di liberazione della donna. Noi lo abbiamo declinato al plurale, le donne, e in questo modo è nato il Mlf”. La provocazione è evidente: il milite ignoto è un maschio adulto, caduto in battaglia, sua moglie — ammesso che l’avesse — era rimasta in vita e magari si era anche risposata: perché omaggiarla della stessa sacralità che invece toccava a suo marito, che al contrario, è morto in battaglia per una causa collettiva? E poi, perché omaggiare la moglie (immaginaria e puramente fantasticata da Cristine Delphy e dalle altre otto) e non pensare ad un’altra donna, certamente non immaginaria e altrettanto ferita da una tale scomparsa: la madre? Non ci sono solo le vedove: la prima guerra mondiale ha visto piangere milioni di madri. Perché Cristine Delphy e le altre otto hanno deciso di forzare la mano alla realtà, preferendo alla madre (reale), una moglie (presunta)? 

Si tratta di una scelta innocente o non apre forse il baratro di un’esclusione senza ritorno, nella quale l’intero universo del movimento femminista finisce con il precipitare? Il rapporto tra madre e figlio ricopre uno spazio di vita di enorme importanza. Di fatto quella tra madre e figlio è la coppia naturale, la più potente. Perché le femministe parigine del 1970 escludono l’intero universo della maternità e, con questo, una dimensione antropologica così straordinaria e essenziale nella costituzione dell’umano femminile? Per di più, accanto a questa colossale mancanza non c’è forse anche quella del padre? Perché non si parla del figlio del milite ignoto? In Francia (e non solo in Francia) i figli dei militari caduti in guerra costituiscono un gruppo sociale — “le pupille della nazione” — da proteggere e tutelare. 

Più in generale ci si può allora chiedere: perché considerare l’uomo solo nel suo rapporto con la donna intesa come moglie, compagna, amica e quant’altro, e non nel suo essere anche un figlio e, molto spesso, un padre (esattamente come la donna è anche figlia e madre)? L’universo di Cristine Delphy, come quello di Simone de Beauvoir e di un corteo infinito di femministe, non sembra farvi cenno, almeno non nella rappresentazione del problema che viene riassunta sul piano mediatico. 

Una tale esclusione presuppone che la dimensione generativa non sia essenziale; che non aggiunga né tolga nulla alla relazione tra uomo e donna. Ma siamo veramente certi di questo? Siamo certi che la relazione con la madre e con i figli non apra frontiere di dignità e di tenerezza tali da consentire di narrare anche l’altra metà della storia, che pur non togliendo alcunché al problema di partenza, vi aggiunga una componente di realtà grande quanto il mondo (perché è la dimensione generativa che alimenta il mondo reale)? Siamo certi che, sommando alla donna la maternità ed all’uomo la paternità, lo stesso problema dei rapporti tra sessi non si arricchisca di una dimensione affettiva che racconti tutta un’altra storia? Siamo certi che, per quest’altra strada, non nascano forme affettive che riequilibrino, ricompongano un universo relazionale che le femministe del 1970 semplicemente scelgono di non vedere? 

Ovviamente una tale domanda apparirebbe agli occhi di Cristine Delphy e delle altre come la prova provata di una cultura maschile completamente naufragata dentro schemi culturali che riducono le relazioni tra la donna e l’uomo alla sola dimensione generativa. Si darebbe così fiato ad una cultura patriarcale oramai morta; sepolta dall’universo delle famiglie nucleari, superate magari dalle convivenze, e, perché no, accompagnate dalle stesse unioni omosessuali.  

In realtà al di là della famiglia patriarcale, esauritasi alla prima crisi dell’universo contadino nel quale trovava la principale ragion d’essere, il femminismo di Cristine Delphy è il prodotto più avanzato di una cultura moderna che fa del singolo, separato da qualsiasi vincolo o appartenenza che non sia volontaria, il vero protagonista dello scenario contemporaneo. È infatti proprio dentro la cornice delle singolarità lanciate ciascuna verso la propria realizzazione personale che qualsiasi asimmetria tra i sessi non solo è moralmente insostenibile (l’immoralità di ogni asimmetria resta tale in qualsiasi società) ma è anche giuridicamente e politicamente inaccettabile. Nella rivolta individualista degli anni sessanta il soggetto ricerca e persegue la sua totale e gioiosa autonomia, facendone un vero e proprio articolo di fede. Il vincolo matrimoniale appare semplicemente ridicolo, il legame generazionale anche, l’appartenenza alla propria comunità diviene un’anticaglia da museo e la tomba del milite ignoto il riferimento ad un valore (la patria) assolutamente fuori corso. “Che ridere!” ricorda Cristine Delphy, nel profanare un luogo che per lei e le altre otto aveva cessato di essere sacro da tempo. “Ma non vi vergognate?” le dissero i poliziotti che interrompevano una tale singolare manifestazione di cordoglio. Nella reazione di quei gendarmi c’era tutto lo stupore di un’altra Francia, per la quale il legame con la patria era ancora reale e quel luogo aveva quindi tutto il suo senso. A distanza di cinquant’anni è diritto di ciascuno valutare chi avesse ragione e quale delle due posizioni portasse realmente più lontano.





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