LETTURE/ A Praga con Dubček e Zvěřina, cronaca di un altro ’68

- Walter Ottolenghi

Nella primavera del 1968, anno cruciale per l'occidente e per molte vite, alcuni giovani provenienti da Gs decisero di conoscere l'esperienza dell'Europa orientale. WALTER OTTOLENGHI (1)

josef_zverina_charta77_teologia_web Josef Zverina (1913-1990) (Foto dal web)

Si poteva ancora attraversare l’Europa su un treno a vapore? Sì, anzi, si doveva, se si partiva dalla vecchia Franz-Josef Banhof di Vienna verso quella che era “l’altra” Europa, quella dietro il muro e le barriere di filo spinato e torri di guardia. Con i miei 19 anni ero il più giovane del gruppo. Gli altri (Carlo Buora, Massimo Guidetti e Rosalba Mozzati, che qualche anno dopo sarebbe diventata mia moglie) erano amici del centro culturale Charles Péguy di Milano, conosciuti tramite ex compagni di scuola di Gioventù Studentesca, realtà che si stava sfaldando — ed io con lei — nel confronto con l’esuberanza ideologica che stava caratterizzando quell’inizio del 1968. La proposta, vista da oggi, aveva, di per sé, tutti i connotati della follia: “Andiamo a conoscere quello che sta succedendo a Praga, con la svolta di Dubcek e Svoboda”.  

Il clima del ’68 italiano aveva avuto sicuramente un impatto forte nell’accettazione di questa proposta. Dopo aver partecipato entusiasticamente alle prime fasi del movimento studentesco, comitati di agitazione, assemblee e occupazioni dell’Università Statale di Milano (anche qualche foto sull’Unità — ormai smarrita — mi ritraeva in questa veste) ero rimasto seriamente deluso dalla piega rigidamente ideologica e anche violenta che il movimento aveva rapidamente preso. L’iniziale istanza di protesta contro l’autoritarismo (in università, in famiglia, nella politica e nel lavoro) aveva prestissimo lasciato il campo a un altro autoritarismo, più sgangherato nella forma, ma sicuramente più intollerante e totalizzante nella sostanza. Il primo sangue versato nei corridoi della Statale negli scontri tra le diverse fazioni aveva segnato il punto chiaro di non ritorno. L’inizio aveva colto nel segno, ma la strada presa era senza sbocchi credibili. Il mio disincanto nasceva dall’aver ben imparato, negli anni di liceo al Berchet, la differenza tra autoritarismo e autorevolezza, grazie all’incontro con persone come don Luigi Giussani, il grecista prof. Piero Scazzoso, il preside Yoseph Colombo e tanti altri che sapevano trasmettere la propria passione mettendosi all’ascolto senza nulla imporre. 

La provocazione per andare a vedere dal vivo il tentativo di cambiamento di una società prepotentemente autoritaria, a partire da presupposti che si presentavano come post-ideologici e, sicuramente, non violenti, era troppo forte per lasciarla cadere nel vuoto. Così, eccoci sulla vaporiera, in attesa di valicare la “cortina”. Era il marzo 1968. Il viaggio aveva comportato l’acquisto di un biglietto di seconda classe di sola andata per la ragguardevole cifra di 14mila lire (una 500 nuova ne costava 400mila; il biglietto di ritorno lo comprammo in valuta locale, con un itinerario che prevedeva un periplo via Ungheria e Jugoslavia, per massimizzare il forte sconto previsto all’interno del blocco socialista da una lega internazionale della gioventù alla quale ci eravamo nel frattempo iscritti su suggerimento dei ragazzi del posto). Più qualche migliaio di lire per il passaporto e il visto consolare. Il tutto finanziato dai risparmi sulla paghetta e da un robusto sussidio di papà, un comunista di lungo corso che, dopo la galera fascista e l’esilio, aveva stracciato la tessera del Pci nel ’56, dopo l’ammissione dei crimini di Stalin da parte del Pcus e la repressione sanguinosa della rivolta ungherese, convinto più dai servizi fotografici di Epoca che dalle acrobazie verbali degli inviati e degli editorialisti dell’Unità. Un po’ preoccupato per la mia avventura ma, penso, contento della mia voglia di spaziare a 360 gradi e di andare a toccare con mano il nuovo esperimento di “socialismo dal volto umano”.

All’arrivo a Praga non si perde nemmeno un minuto. Incontriamo un amico di Forlì (Tonino Setola) che ci ha preceduti di un paio di giorni e che ci presenta una studentessa laureanda in lingue romanze (Ružena Ružicková), conosciuta come guida dell’agenzia turistica nazionale, che ci farà da interprete nei giorni successivi e ci organizzerà il programma di incontri. Per prima cosa con i suoi compagni di università. Il clima è euforico, sia per l’entusiasmo per il nuovo corso, per la scoperta della libertà di parlare senza timori, di potersi radunare all’aperto senza creare sospetti, sia anche per l’eccitazione — peraltro reciproca — di un incontro con ragazzi “dell’altra faccia del mondo”. Decidiamo di iniziare col raccontarci le nostre storie. Ci parlano di loro: alcuni sono di Praga, altri vengono da città di provincia e vivono nei pensionati universitari. Ci raccontano del clima cupo e delle limitazioni con cui hanno dovuto convivere fino a pochi mesi prima, delle nuove speranze e, anche, della storia e delle tradizioni del loro Paese. Nessuno nutre sentimenti antisocialisti o di rivalsa, ma tutti portano dentro l’amarezza di aver convissuto con quanto di peggio un’ideologia al potere potesse produrre. Lo spazio di libertà era in famiglia, con gli amici più fidati e, per chi aveva la fortuna di essere intonato, le corali che cantavano nelle chiese, dove era possibile ritrovarsi per le ripetute prove e, quindi, creare col tempo una familiarità di rapporti. 

Adesso si trattava di riprendere il filone di una civiltà e di una cultura orgogliosamente europee, non solo nella musica e nell’arte, ma anche nella tradizione della libertà di pensiero, dai tempi di Jan Hus a quelli dei presidenti Tomáš e Jan Masaryk, e della profondità spirituale, dei pensatori, dei poeti e dei santi della loro terra. Anche la vita religiosa si trovava adesso di fronte a un territorio nuovo, non più solo limitato all’ambito di famiglia, di amici selezionati, ma aveva il modo di venire allo scoperto. Sì, ma come? Ci chiedono del ’68 in occidente, della piega che ha preso. “Mandateceli qui, che gli insegniamo qualcosa del comunismo…”. Raccontiamo di noi, di come abbiamo imparato che non si può pretendere il possesso delle verità, ma che la vita è un percorso di verifiche che passano attraverso l’esperienza e che la dimensione comunitaria dell’esperienza è una modalità privilegiata di sostegno del percorso e del suo rendersi comunicabile. Nonostante gli sforzi dell’interprete, il nostro vocabolario sembra arrivare da un altro pianeta. La traduzione della parola “esperienza” rimanda al mondo della ricerca scientifica, mentre le parole “comunità” e “comunitario” riecheggiano inesorabilmente le modalità aggregative del regime comunista. Però siamo tutti contenti di stare insieme, tiriamo notte discutendo e nei giorni successivi ci ritroveremo anche con altri loro amici per scampagnate nei parchi naturali che circondano la città, per continuare a parlare e cantare, con panini e chitarre.

Si dormiva, poco, in case di famiglie ospitali. Un bel modo per fare amicizia con persone più grandi di noi, che ci raccontavano della situazione del mondo del lavoro, della scuola, di come tirar su i figli ecc., oltre che fornire un certo sollievo al nostro budget. Queste case, in quei giorni, erano diventate la base dove organizzare incontri con personaggi che erano in prima linea nell’impegno di costruire il processo di cambiamento in atto, a partire dal loro contributo culturale. Personaggi come Václav Havel, Jirí Nemec e altri, musicisti, scrittori e poeti. E, poi, giornate dense di visite alle redazioni di radio e giornali di tutti i tipi. Ovunque accolti con cordialità e stupore, voglia di raccontare i loro progetti e le loro speranze e curiosi di sentire di noi, di come mai ci interessavamo così da vicino di loro. In una di queste visite di redazioni ci colpì la vivacità di una persona, a cui chiedemmo un appuntamento per approfondire meglio alcuni spunti che avevamo colto (difficile adesso ricordare quali). Appuntamento subito accordato. Si chiamava Jozef Zverína e divenne poi uno dei nostri più grandi amici.

Molte delle persone che conoscemmo avevano passato l’esperienza della prigionia politica, alcuni, come lo stesso Zverína, arrivando a fare il bis: prima coi nazisti e poi coi comunisti. Sentire il racconto della loro vita era come veder mischiato un film di guerra con gli atti degli apostoli. Soprattutto colpiva un tratto comune: tutti avevano trovato un modo per vivere queste esperienze e uscirne senza venire a compromessi con la propria dignità. La forza stava nella memoria delle esperienze che avevano vissuto, di ciò che erano stati, e nel desiderio di tornare a riannodarne i fili. In altre parole: una speranza indistruttibile. Anche per chi portava nel corpo i segni delle miniere di uranio, destinati pochi anni dopo a reclamarne la vita, dopo una tardiva riabilitazione legale e un breve ricongiungimento con le loro famiglie.

In loro nessun segno di livore o rivendicazione, nessun incupimento travestito da ideologia. Semmai, la consapevolezza che la libertà di essere se stessi, di salvaguardare la propria dignità, comporta sempre un prezzo da pagare, a volte molto duro, ma che ne vale comunque la pena. E, poi, in tutti un sense of humour che non solo ne faceva degli interlocutori imperdibili, ma faceva intravvedere anche l’equilibrio interiore maturato nelle vicissitudini della loro vita. Capaci di valutare con realismo la loro situazione attuale, una finestra di opportunità di cui approfittare per uscire allo scoperto in tutti i modi possibili, mostrarsi, stringere legami e tessere relazioni che sarebbero risultate preziose in futuro, nutrendosi di speranze, ma senza superficiali illusioni. Senza, soprattutto, perdere tempo con progettazioni di utopiche società ideali o velleità di nuove egemonie culturali.

Impietoso il confronto con tanti tromboni politici e mediatici nostrani o con tanti tromboncini che si allenavano a raccoglierne il testimone — a distanza di anni, devo ammetterlo, con un buon successo —  in veste di imbonitori di assemblee studentesche o di massimalisti velleitari, oppure affilando le armi per le loro future imprese di sangue e disperazione. Quello che ci eravamo lasciati alle spalle nelle nostre università esaltava ancora di più la statura dei personaggi che incontravamo. Eravamo affascinati dalla loro storia, dalla loro profondità e saggezza, dalla vastità del loro spessore culturale, ma anche dalla disponibilità ad accoglierci e a mettersi in ascolto di noi, così giovani, sprovveduti e anche un po’ viziati dalla vita agevole degli anni del boom. 

Come dimenticare l’attenzione con cui lo storico Zdenek Kalista ci accoglieva al “suo” tavolo fisso al Caffè Slavia, trascurando la conversazione con gli altri intellettuali e letterati che si ritrovavano abitualmente nello storico locale per raccontarsi del loro lavoro e scambiarsi progetti e speranze. Aveva subìto una lunga prigionia a causa di una falsa testimonianza estorta a un suo stretto familiare, così ci avevano raccontato: da parte sua, nemmeno un cenno.

O il teologo Antonín Mandl, quando intonava “Non, je ne regrette rien” con il suo volto scavato dalla leucemia contratta per la lunga esposizione a materiali radioattivi durante i lavori forzati. Oppure l’ex diplomatico Václav Vaško, che all’avvento del regime era stato costretto a separarsi dalla moglie russa e dalla figlia, che non poterono abbandonare Mosca per seguirlo. Ora lavorava per un circo, dove pare si divertisse molto, e dopo il lavoro si dedicava alla sua intensa attività pubblicistica, quella che gli era costata la fine della carriera e un po’ di anni di prigione. E tantissimi altri, grandi protagonisti della cultura del loro Paese, ancora giovanilmente curiosi della nostra curiosità e ansiosi di trasmetterci la loro esperienza umana prima del loro sapere.

Meno di una settimana di un’intensità mai vissuta prima, culminata la mattina della Pasqua 1968 quando, con i ragazzi che avevamo incontrato, siamo saliti sulla torre della cattedrale del Týn, nella piazza della Città Vecchia, facendoci largo tra ragnatele e penne di piccione, per sciogliere le campane pasquali: avrebbero suonato per la prima volta dal 1948. Per poi scendere e partecipare ad un’affollatissima e straordinariamente intensa e partecipata liturgia celebrata da padre Jirí Reinsberg, altro pilastro della vita praghese di quegli anni. Con la sua saggezza “rabbinica”, depositaria della memoria della Praga “profonda”, e con il suo equilibrio fatto di candore, astuzia e prudenza era riuscito a fare della chiesa centrale della città un punto di riferimento per tutti, anche per i pezzi grossi del partito che portavano i figli a battezzare di nascosto.

Ci accordammo, alla fine del nostro soggiorno, per riprendere il filo dei tanti discorsi durante l’estate successiva.

(1 – continua)





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