Siamo onesti. Pochissimi hanno letto la Costituzione, moltissimi ne citano ritagli. Quale che sia il tema in oggetto, sempre arriva puntuale quel richiamo più o meno esplicito all’uno o all’altro articolo della Carta che nelle intenzioni del citante dovrebbe fornire precise e puntuali garanzie a sostegno della sua tesi. Si mette così in atto un “mercato della Costituzione” in cui ognuno prende dal testo ciò che gli occorre, estrapolando citazioni dal contesto (che diventano parziali e artefatte) e dimenticando uno dei principi basilari senza il quale diventa arduo comprendere il senso di ciò che si legge: ci si riferisce al cosiddetto “spirito della Costituzione”, cioè quell’insieme di volontà, desideri e aspirazioni che hanno animato i Padri costituenti al momento della formulazione di ogni articolo e che non fa limitare la Costituzione al solo testo scritto, ma permette di tener conto di ciò che è vissuto e vive in esso.
In questa situazione, uno dei temi più dibattuti e ricorrenti riguarda la legittimità (o meno) del finanziamento pubblico alle scuole paritarie. Un tema che ha alimentato scontri e diatribe a non finire, a volte utili a porre in essere una questione, altre volte patetiche e strumentali. Ad essere preso in esame è l’articolo 33, in particolare il comma in cui si afferma che “enti privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Proprio il “senza oneri per lo Stato” è diventato da più parti la prova provante della presunta incostituzionalità di sovvenzioni pubbliche alle scuole paritarie.
Non è così. E per dimostrarlo è forse utile tornare al dibattito in Assemblea costituente così da comprendere come è nato, chi l’ha proposto e come va letto questo emendamento.
Su proposta dei cattolici, appoggiata poi anche dai comunisti, l’Assemblea costituente il 29 aprile 1947 votò la prima parte dell’articolo 27 (che poi divenne l’articolo 33), quella che fissava la parificazione tra scuola statale e non statale. Era un risultato davvero importante per i cattolici (anche se in molti lo criticarono) perché per la prima volta si superava il monopolio statale in materia scolastica tanto caro alla borghesia liberale ottocentesca, e per la prima volta veniva sostenuta la piena libertà della scuola istituita da enti o da privati: libertà che non era più una semplice rivendicazione da strappare allo Stato liberale, ma un diritto pubblico inserito nella nuova Carta fondamentale della Repubblica. Non esattamente un traguardo da poco.
Subito dopo questa votazione, un gruppo di deputati liberali capitanati dall’on. Epicarmo Corbino, proposero all’emendamento appena votato l’aggiunta “senza oneri per lo Stato”. Ne nacque un dibattito, in particolare a seguito della risposta di Giovanni Gronchi, democristiano, il quale controbatté che “collocare un tale divieto è troppo restrittivo e controproducente” ai fini della stessa educazione “che noi abbiamo posto come uno dei primi compiti dello Stato”. Per la verità, l’opposizione democristiana alla proposta Corbino fu piuttosto debole, soprattutto perché lo stesso proponente Corbino si affrettò a chiarire il senso della sua proposta: “noi non diciamo — disse rivolto ai democristiani — che lo Stato non potrà mai intervenire a favore di istituti privati; diciamo solo che nessun istituto privato potrà sorgere con il diritto di avere aiuti da parte dello Stato”. Posizione, questa, che sola basterebbe a smontare la tesi di chi sostiene la non costituzionalità degli aiuti statali alle scuole paritarie. Ma non ci si limitò a questo. Nel dibattito intervenne il deputato azionista Tristano Codignola, aggiungendo alle considerazioni di Corbino che tale emendamento non avrebbe impedito che lo Stato in futuro avrebbe potuto provvedere anche agli istituti non statali: “si stabilisce soltanto il principio che non esiste un diritto costituzionale a chiedere tale aiuto”.
Nei dibattiti assai polemici dei decenni successivi, e fino ai nostri giorni, di tali precisazioni non si tenne conto poiché la clausola “senza oneri per lo Stato” fu sempre ostinatamente interpretata nel suo senso restrittivo come proibizione, imposta dallo Stato in maniera assoluta, di fornire aiuti finanziari sotto qualsiasi forma alle scuole non statali. Un’interpretazione così rigida non era nelle intenzioni degli onn. Corbino e Codignola, tanto più che nel comma dell’articolo 27 si parlava di “istituzione” di scuole e istituti che dovevano avvenire “senza oneri per lo Stato”, ma non si parlava del loro “funzionamento”, una volta che fossero istituite. Era chiaro ai Padri costituenti che se scuole e istituti non statali, istituiti senza oneri per lo Stato, mostrassero di essere strumenti educativi validi al pari delle scuole statali, nulla poteva vietare allo Stato, in vista del bene comune dell’educazione, di aiutarle economicamente per un migliore funzionamento. Era chiara la volontà dei costituenti. L’educazione non doveva essere una materia di esclusiva competenza dello Stato perché la libertà di insegnamento faceva il paio con la libertà personale: senza il riconoscimento della prima non poteva svilupparsi a pieno la seconda.
Se ne potrebbero fare molti di esempi di un uso strumentale della Costituzione. Quello citato è solo uno fra i tanti. A volte, forse, è questo un inevitabile contrappasso in un tempo in cui l’informazione ha fagocitato la conoscenza. Ma chissà che questo settantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Carta non diventi occasione di un rinnovato slancio di conoscenza di una Costituzione che non è, come è stato enfaticamente affermato, “la più bella del mondo”, ma non è neppure da disprezzare o peggio ancora da considerare scontata e in qualche modo immortale.